martedì 10 gennaio 2017

ZigZag su Zygmunt – Bauman in love

 ZigZag su Zygmunt
Bauman in love

Ieri è morto Zygmunt Bauman, il pensatore che forse meglio di ogni altro ha saputo interpretare la crisi della società moderna, il perché dell’era post-moderna e il quo vadis di questo incipiente Terzo Millennio (comunque, anche le Scritture hanno il loro savoir-dire su tutto questo…).

In omaggio al “liquidatore” delle grandi (in)certezze, eccovi un contributo tratto dal web: http://www.wired.it/attualita/media/2017/01/10/pensiero-bauman-5-punti/?utm_source=wired&utm_medium=NL&utm_campaign=daily
Ma siccome non mi (vi) faccio mancare nulla (nihil, nel senso nichilistico? Chissà...), lo chioso con uno shot del mio Gocce di pioggia a Jericoacoara, in cui c’è anche un “fermaglio” su Bauman.
Come dire, Bauman at work.


È stato forse il pensatore – filosofo o sociologo, poco importa in questo senso – che ha meglio interpretato il caos che ci circonda e il disorientamento che viviamo. La temperie di passaggio, lunga e inquietante, in cui siamo immersi. Specialmente con la fortunata serie di saggi, da Modernità liquida del 2000 in poi, che lo hanno trasformato in una superstar del pensiero sulla postmodernità, considerata un territorio incerto costellato da un esercito di consumatori che fanno di tutto per assomigliarsi l’uno con l’altro. Zygmunt Bauman è morto il 9 gennaio a Leeds a 91 anni. Le sue lezioni, in particolare quelle successiva alla sua fase accademica concentrata sulla sociologia del lavoro, rimarranno strumenti solidi – più che liquidi – per capire la strada che abbiamo di fronte. E come sta cambiando pelle la società che dovrà percorrerla.

1.   La modernità liquida

Concetto fra i più noti del sociologo nato a Poznan da genitori ebrei. Semplice da comprendere, nei suoi confini di massima: con la fine delle grandi narrazioni del secolo scorso abbiamo attraversato una fase che quelle certezze del passato in ogni ambito, dal welfare alla politica, le ha smontate e in qualche modo dissacrate mescolandole a pulsioni nichilistiche.

Il risultato, che iniziamo a intravedere sull’onda lunga di quel periodo, è appunto un presente senza nome caratterizzato da diversi elementi: la crisi dello Stato di fronte alle spinte della globalizzazione, quella conseguente delle ideologie e dei partiti, la lontananza del singolo da una comunità che lo rassicuri.

La sua comunità è diventata il consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo senza una missione comune. Concetti ripresi e approfonditi in testi come Amore liquido (2003) o Vita liquida (2005).

2. L’indignazione

La fase che viviamo è propizia ai populismi e in particolare all’indignazione. In generale, a spinte contrastanti che viaggiano in direzioni complesse ma senza progetti, con la sola consapevolezza di ciò che non vogliono. Per Bauman, dopo la modernità fondata sul meccanismo del ritardo della gratificazione, stiamo insomma vivendo una sorta di interregno gramsciano. Una categoria da molti recuperata per descrivere i tempi che stiamo affrontando, quando “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Un interregno oltre tutto ricco e affogato nell’informazione nel quale mancano non solo soluzioni univoche ma anche gli agenti sociali in grado di metterle in atto. Dagli Indignados a Occupy Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene contestato e diroccato ma allo stesso tempo fatica a difendersi. Potrebbe farlo solo accogliendo risposte che sposino in parte le istanze di queste spinte, a loro volta poco chiare.

3. L’etica del lavoro ed estetica del consumo

Frutto di quella procrastinazione – investire anziché distribuire, risparmiare o spendere; lavorare anziché consumare – è in fondo lo stesso sviluppo della società moderna. Basato su un’attesa – quel ritardo della gratificazione – che ha finito per produrre due tendenze in radicale opposizione: da una parte una società basata sull’etica del lavoro. Quella in cui mezzi e fini si invertirono finendo per premiare il lavoro fine a se stesso, estendendo il ritardo all’infinito e tuttavia mantenendo una volontà di ricercare modelli e regole al vivere comune.

Dall’altra l’estetica del consumo, che per converso vedeva il lavoro come mero strumento utile a preparare il terreno per altro. Quest’ultimo concetto ha subìto oggi un’estremizzazione che ha condotto alla sua negazione: ritardo non c’è e non può esserci, attesa neanche. Questo secondo modello, quello che viviamo – d’impostazione aristotelica per opposizione al platonismo dell’altro – trasforma infatti il mondo in un “immenso campo di possibilità, di sensazioni sempre più intense” in cui ci muoviamo, spesso imboniti dal venditore di turno, alla sola ricerca di Erlebnisse, esperienze vissute. L’esasperazione della soggettività, che trova per giunta incredibili attuazioni nelle tecnologie in cantiere come la realtà virtuale, si piega alla tirannia dell’effimero.

4. L’analisi dell’Olocausto

La svolta delle ricerche di Bauman avviene tuttavia prima di questi celebri lavori, nel 1989, con Modernità e Olocausto. Un tema evidentemente enorme per chiunque, pachidermico per un sociologo ebreo che grazie alla fuga della famiglia in Russia nel 1939 aveva evitato le conseguenze dirette della Shoah. Magistrale il ponte che costruisce fra la persecuzione degli ebrei le dinamiche della modernità, individuandoli come elementi di destabilizzazione dell’ordine, finanza contro terra. In questo senso Bauman fa dello sterminio un fatto ripetibile, lo toglie dall’isolamento trasformandolo in frutto della civiltà moderna, delle sue regole economiche ed efficientiste a cui subordinare pensiero e azione. La Shoah come parto della tecnologia e della burocrazia, per la quale l’antisemitismo è stata ragione necessaria ma non sufficiente. Uno sviluppo della lunga storia della società, quasi un orribile test che ne ha rivelato le possibilità occulte difficilmente verificabili nell’ordinarietà.

5. Post-panopticismo

In una prospettiva futura, per capire cioè cosa arriverà dopo la post-modernità, Bauman – in particolare nel libro Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida uscito un paio di anni fa e scritto con David Lyon – ci apre gli occhi verso un approccio del tutto diverso alle strutture di potere, che sorpassa i classici modelli di controllo teorizzati da Jeremy Bentham e Michel Foucault. Cioè un modello di società in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque del consumo. In cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali finiscono i dati e non le persone, o meglio le loro emanazioni digitali. E in cui i rischi più elevati – più che per la privacy – sono per la libertà di azione e di scelta.

La novità è che questo spazio del controllo ha perso i muri. E a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono e collaborano al loro stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per individuare l’aspetto poliziesco nascosto sotto a quello seduttivo. Non c’è più un luogo – che sia la scuola, il carcere o la fabbrica – dove concentrarci per controllarci, se non quelli residuali come il carcere o il campo profughi.

Ed eccoci al mio estratto (fatto a piccoli salti). Un po’ romance (Roma), un po’ dance (New York). 
Tu sapessi che cosa è Roma! Tutta vizio e sole, croste e luce: un popolo invasato dalla gioia di vivere, dall’esibizionismo e dalla sensualità contagiosi, che riempie le periferie... Sono perduto qui in mezzo.” Parole (corsare) di Pasolini, incartate e spedite – si era nel 1952 – all’amico Giacinto Spagnoletti, critico militante (e di pari natali di Lorenzo, in quell’anno appena svezzato. (…) L’urbe capitolina: in bilico tra capitolazione e ricapitolazione (per il momento ancora tutta lucchetti, ma anche moine e smorfiette). Tutta  generazione dello scusa-ma-ti-chiamo-amore. E con un look al passo col vento (dal ponentino era passata all’’attimino’). 
Tappeto rosso, città color rosso vermiglio (città futurista, o passatista?). (…) 
“Coi secchi di vernice coloriamo tutti i muri, case, vicoli e palazzi…”
In una città di due milioni e mezzo di scheletri, la presenza di qualche migliaia di viventi passa inosservata.” Frenesia flaccida d’inconsapevole mestizia. Ebbrezza da vino di buon mosto. Già acqua, trasformatasi in vin rouge ai primi sentori di una presenza vicina (Quo vadis? Maranathà!). Roma rosso-trevi, rubiconda di vernice e di mestruazioni. Urbe gioconda, ancora faconda di emozioni (e di nuovi figli). Complice. Sfuggente (tocco fuggitivo alla Cecchini e rintocchi stonati di aromatici Toscani). 
“…al tramonto il rosso infuoca i ricami di pietra il tempio interiore è silenzio.” (…)
La città appariva dimagrita, quasi scheletrica, tutta ossa secche, ma conservava intatta la sua sensualità. Ne era passata di acqua (non rossa, ahimè) sotto i ponti... Anche il tempo scorreva, ma, ora, più lentamente. Si era prossimi al “tramonto rosso fuoco” ricamato da Sandro Giovannini, poeta ‘comunitario’ (…) 
“New York è dove tutti vengono a farsi perdonare” confessa in Shortbus il vecchio gay, già sindaco (alla frutta) della Grande Mela. Sì, Shortbus, il gay-movie un po’ a Le fate ignoranti (ma oltre misura…), porno qui porno là, ma d’autore (film trans-portato al Festival di Cannes; portata un po’ indigesta…), che ben descrive la metropoli metrosexual. Alla Beckham. 
Posh. Qui, più che altrove, Lorenzo avvertiva la disseminazione della cultura, costantemente contrattata e in divenire. Eppure, era solo da un paio di giorni che camminava col naso in su. E senza puzza sotto le narici. La metropoli puzzava, la campagna odorava? Era tutto oro quel che luceva? La metropoli versus la città rurale. Due realtà sostanzialmente diverse secondo Georg Simmel, filosofo quanto mai attento alla realtà urbana (Lorenzo se n’era occupato ultimamente, in un breve saggio su un giornale locale. Discettando, una ciliegia tira l’altra, anche di Kevin Lynch, Kurt Lewin e, dulcis in fundo, della percezione-Gestalt dell’immagine urbana).
Due realtà fisiche e due gestalt – forme, strutture – che incidono diversamente sul modus viventi dei loro abitanti. E sull’immaginario urbano. Imago mundi. L’architettura che ‘co-stringe’ fisicamente, psichicamente, ‘pneumaticamente’, i suoi sudditi. Architettura da de-costruire, reset psico-territoriale, bouleversement creativo. (…)
Punto di partenza, tra riva e ‘deriva’: la metropoli. Ritmo veloce, giungla di stimoli, sensazioni e immagini. Versus: l’ambiente rurale, dal ritmo lento, più abitudinario e uniforme. “Più la folla è densa, più ci sentiamo soli”, così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del troppo’ (altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi stavano tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale, dell’indistinto. E dell’outlet (e dei continui outing e coming out). Città-teatro-off, metropoli del ‘passaggio veloce’, del nulla – anche se iper… (e quella di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra esistenza in ‘non-luoghi’, dove si consuma il presente e si abortisce l’avvenire).
La metropoli del denaro e di Mammona versus la campagna del baratto (e della mamma, quella con le tette gonfie di latte). Ma anche lo sfilacciamento del tessuto comunitario – altro che manna – a vantaggio della scolorita ‘stoffa’ periurbana (le periferie anonime e suicidofile, ipermercati inclusi, per quanto architettonicamente ben disegnati). Luoghi, non-luoghi? Vita, non-vita? Il bello non ha prezzo.
Vita tra i confini. Identità versus alterità. Ma ancor di più: alterità nell’identità. Equilibrio in bilico. Città plurale, campagna singolare. Spaesamento. Urbanizzazione selvaggia. Portici, shopping malls, clochardization. Marginalità inclusiva, gentrification elitaria. Minimal o segno ipergrafico. Fast-food versus slow-food. Boutique versus ipermercato? Un po’ l’uno un po’ l’altro. Ma con juicio. 
Adelante. Ingoiare, piluccare. Vivere, sopravvivere. Morire, sognare, svegliarsi, risvegliarsi. Fare del silenzio un’opportunità, un ‘possibile appuntamento’ per ricevere intuizioni dal superconscio. Il silenzio della natura che (tra cinguettii e fruscii) annacqua l’ebbrezza urbana. Vivere tra i margini (e, spesso, sconfinare…). Questo l’universo quotidiano. Ma anche l’intellettualità sofisticata, la riservatezza fino alla ritrosia, il formalismo blasé e il distacco anodino, il tempo che tutto scandisce e cronometra: questa la metropoli e i suoi ‘numeri’. Ma dietro il numero c’è Dio…

mercoledì 4 gennaio 2017

LE POST-VERITÀ – TRUTH & TRUST


LE POST-VERITÀ
TRUTH & TRUST

«Quando Tyler ha inventato il Progetto Caos, Tyler ha spiegato che lo scopo del Progetto Caos non aveva niente a che fare con il prossimo. A Tyler non importava se qualcun altro si faceva male o no. Lo scopo era far prendere coscienza a ciascun partecipante al progetto del potere che ha di controllare la storia. Noi, ciascuno di noi, possiamo assumere il controllo del mondo. È stato al fight club che Tyler ha inventato il Progetto Caos.»
Forse non ce ne rendiamo conto, ma il Progetto Caos è già in fase di attuazione, sia pure camuffato da Progetto Cosmos. Tutto imbellettato, dolcificato, patinato (e platinato): camouflage in doppiopetto, bello siliconato. Valgono solo le cose “scientifiche” (a dire dei presunti sapienti: la verità… ah se fosse vera! direbbe l’ipervedente Borges), tutto il resto – scie chimiche, crollo “guidato” delle torri, vaccini a prova non stagna di meningite ecc. ecc – è noia, anzi post-verità (a dire il vero sono ben più diffuse le pre-verità…)
Sia ben chiaro, non c’è l’assoluta certezza nemmeno nelle “verità” dei “complottisti”, dalle twin towers “suicidate” alle scie chimiche spurgate dagli aerei, dall’Isis frutto di chissà quale diavoleria yankee ai microchip 666, ma perché negare tutto a priori? Non si fomenta così il sospetto, legittimo, che molti dei cosiddetti “antibufalari” siano al soldo di chissà chi?
È vero, sì, che ogni asserzione tende a essere viziata dalla pre-comprensione e dal pregiudizio, ed è quindi facile favellare, o favoleggiare, con i paraocchi e i prosciutti sugli occhi, pensando di fare i realisti (più del re: il Grande Fratello) o gli anticonformisti e complottisti a ogni costo, ma non è meglio vagliare ogni possibilità, senza cadere nella trappola, ormai disseminata, dello scientismo radical-chic e prêt-à-porter?  
D’altronde, chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente. (Bertolt Brecht).

Quanta povertà, quanta avarizia è nelle vostre anime, voi uomini! Fango è nel fondo della loro anima… Certo, costoro sono astinenti: ma la cagna sensualità guarda con invidia da tutto quanto essi fanno. Lussuria mascherata da compassione.
Questi molti degli “svelatori” delle post-verità: sempre patinati e pettinati (spesso a pettinare bambole e smacchiare giaguari).
E chi crede nelle tanto vituperate post-verità e non si piega alle tanto osannate pre-verità?
Si sente, per dirla con un altro pensatore non-conforme, come un naufrago avvinghiato a quell’Io che ancora non sa comprendere senza macchiarlo, ma che tuttavia intuisce essere la sua unica certezza: senza religione né fede né entusiasmo, fra una scienza che in sé stessa si sfascia e una filosofia esasperata in una formale, vuota sufficienza; assetato di libertà eppure irrigidito nel contrasto con una natura, una società e una cultura in cui ormai più non si riconosce.
In  ogni caso, macchia o non macchia, avevo preconizzato il “progetto post-verità” già un mesetto fa: ve lo riposto in parte, il resto lo trovate su TRUMP-RENZI: CHI HA PERSO (PRESO) IL TRUMP? LE POST-VERITÀ.

Oggi, post-Immacolata, vi voglio proporre – post-porre mi verrebbe da dire – un post sulle post-verità. 
Si tratta di un neologismo derivante dall’inglese post-truth, che, peraltro, l’Oxford English Dictionary ha deciso di nominare parola dell’anno del 2016.
Post-verità? Ma che vo’ di’? È una notizia completamente falsa ma spacciata per autentica, capace, grazie al suo indotto di rimandi ed emozioni, di influenzare una parte dellopinione pubblica. Insomma, una balla.
Balla, sì, la post-verità, ma capace di far ballare. Tuttavia, un dubbio fa capolino: si tratta di notizie totalmente false, o le post-verità non sono, piuttosto, delle verità posticipate?
Il dubbio si fa poi (post)certezza: che siano verità, mezze verità o pseudo-verità, le post-verità si dimostrano “verità a posteriori”, capaci di scalzare le presunte verità a priori: quelle spacciate a spiccioli o a caterve e ca(s)cate da intellettualoidi mezze-calzette e da mass-mediologi impreparati, pre(post)pagati o solamente drogati di protervia e hybris (e qui rinvio all’azzeccato termine – in memoria del nostro post-nonno Adamo – utilizzato da Marco Travaglio per definire il “peccato di Matteo”). Questo a prescindere dall’unghiata tigresca post-mortem dell’ultimo Renzi alla Baricco, dopo tanti baloccamenti, profumi e balocchi (e con donna Agnese finalmente “al bacio” – l’ultimo bacio?).
In ogni caso, per illuminarvi sulle post-verità vi ri-posto un illuminante post sgorgato dai fondali del web (www.loccidentale.it/articoli/143864/tenetevi-forte-la-vera-bufala-e-la-post-verita). Un post fuori dal “luogo comune”: “... forse non lo dici però lo sai ... e quindi sei un recidivo! Ti distingui dal luogo comune ... e vuoi rispondere solo a te ... ti distingui dalluomo comune.”
Ve lo ri-posto tutto (d’altronde è breve). Ovviamente, per dirla con Vasco, non è per “uomini comuni” (e “bipedi”), ma per uomini (e donne) differenziati – v. anche la contrapposizione tra “persuasione” e “rettorica” in Michelstaedter.
Infine, onda su onda, vi post-posto l’incipit di un mio romanzo inedito: qui le immaginarie post-verità, alla Fight Club, potrebbero diventare realtà metropolitane; e solo movimenti post-sistema, ma tutto sommato nel sistema, quali i CinqueStelle e la Lega (a sinistra c’è ben poco), riescono a frenare le derive post-sessantottine (nel senso di brigate rosse e nere).

Da quando l'Oxford Dictionary ha inserito il termine post-truth, insieme a Brexit, brexiteer, tra le parole dell'anno, la “post-verità” è diventata un mezzo per screditare Brexit e l’elezione di Donald Trump. La post-verità in realtà esisteva anche prima del web: Ronald Syme in The Roman Revolution ha descritto come, mettendo in giro bugie di ogni tipo, Ottaviano ottenne dal Senato il mandato per fare la guerra in Egitto contro Antonio e Cleopatra, per liberarsi così dell’ultimo rivale e prendersi Roma. 
La post-verità è una notizia falsa o una notizia non esatta che, veicolata dal web avrebbe, secondo alcuni pasionari anti-brexit e anti-Trump, convinto masse di rozzi e incolti abitanti delle zone rurali del Regno Unito a votare Brexit, come degli Stati Uniti a votare Trump. Questa strategia del popolo bue, viene usata anche in Italia contro la vittoria del NO al referendum: i radical chic considerano Brexit, Trump, il NO del 4 dicembre il risultato del voto dei buzziconi. Invece Niall Ferguson, storico dell’impero britannico, del capitalismo e della globalizzazione, una star di Oxford e Harvard, il 6 dicembre ha dichiarato di avere sbagliato a non sostenere Brexit e a non avere passato più tempo ad ascoltare la gente nei pub.
Parlando al Milken Institute a Londra sul futuro dell’Europa – come riportano il Daily Mail e Breitbart del 7 dicembre – Ferguson  ha dichiarato di avere sbagliato a non sostenere subito Brexit, perché l’Unione Europa è stato il disastro che aveva previsto fin dal 1999. 
È stata un disastro soprattutto per l’Europa Meridionale,  visto che l’euro ha funzionato solo per la Germania e l’Europa del Nord. Catastrofica è stata anche la politica di sicurezza europea per l’Africa e il Medio Oriente, come quella sull’immigrazione, e la Ue non ha capito niente dell’Islam radicale, perciò è del tutto giustificata la rivolta della Brexit.
L’Europa in grave crisi demografica – con un invecchiamento impressionante della popolazione per il quale si prevedono costi sempre più alti per il welfare, con un’immigrazione incontrollata, e comunque non in grado, anche se integrata, di essere classe dirigente – è sull'orlo dell'abisso. Già nel 2015 Ferguson aveva scritto come l’Europa, afflitta da una lenta crescita, dalla crisi demografica, era destinata al fallimento. Sul Wall Street Journal del 19 novembre 2011, lo storico aveva tracciato un quadro a tinte fosche dell’Unione Europea, con gli inglesi felici in Britannia e italiani e greci a fare da camerieri e giardinieri ai tedeschi in un nuovo Sacro Romano Impero. 
I media − ha detto Ferguson − hanno preso Trump alla lettera, ma non seriamente. I suoi elettori lo hanno preso sul serio, ma non alla lettera”. Trump, il nuovo Roosevelt secondo Ferguson, ha infatti stracciato subito il TTP, ha telefonato al presidente di Taiwan per fare capire ai cinesi che intende ridimensionare i rapporti sino-americani, ha pure invitato Apple a tornare a produrre negli States: per chi dà lavoro agli americani ci saranno sgravi fiscali, mentre le imprese americane all’estero avranno dazi del 35% per le merci in America. Ferguson sostiene quindi la politica di Trump per riportare il lavoro in America, e la sua politica estera di alleanza con Putin in Siria e Ucraina.
È cominciata un’età nuova, forse avremmo bisogno anche noi di un Niall Ferguson, ma non se ne vede neppure l'ombra.

Bomba o non bomba (a Firenze dormimmo da un intellettuale, la faccia giusta e tutto quanto il resto. Ci disse: no, compagni, amici, io disapprovo il passo; manca lanalisi e poi non cho lelmetto: Ma bomba o non bomba noi arriveremo a Roma, malgrado te Venditti cantat), è giunto il tempo di risvegliarsi e uscire dalle trappole mediatiche (Grillo non è poi tanto grullo), utilizzando tutti e cinque i sensi (e oltre).
Ci vuole un salto di qualità: «La soprannaturalizzazione dei cinque sensi è la grande avventura del corpo a contatto con il divino. Un corpo vivente può diventare qualcosa di molto simile a un corpo glorioso.» (Cristina Campo).