lunedì 28 febbraio 2011

SLOW LIFE, GREEN LIFE, BETTER LIFE

   












SLOW     LIFE   
GREEN LIFE    BETTER LIFE

ELOGIO DELLA PARESSE


Slow life, green life, better life. Questo lo slogan dell’odierna giornata della lentezza.  E io, che un po’ paresseux sono, festeggio: faccio il “party delle parti”  (ho una ‘parte’ lenta, una veloce, una sneakers, una tacchi a spillo….). E siccome oggi sono più paresseux del solito, pesco a piene mani dal mio oceano privato (Gocce di pioggia a Jericoacoara, alle soglie del parto, e il romanzo in progress che sta , invece, facendo le ultime ‘ecografie’).

Ritmo veloce, giungla di stimoli, sensazioni e immagini. Versus: l’ambiente rurale, dal ritmo lento, più abitudinario e uniforme. “Più la folla è densa, più ci sentiamo soli”, così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del troppo’ (altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi stavano tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale, dell’indistinto. E dell’outlet (e dei continui outing e coming out). Città-teatro-off, metropoli del ‘passaggio veloce’, del nulla – anche se iper… (e quella di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra esistenza in ‘non-luoghi’, dove si consuma il presente e si abortisce l’avvenire).
La storia futura non produrrà più rovine. Non ne ha il tempo.” Così Marc Augé.
Nella metropoli della fretta (ma andiamoci piano…) Arianna passeggiava, nel vero senso della parola. Camminava lentamente, sorbendosi marciapiedi, negozi, case, persone, con aria un po’ svogliata e indolente. In controtendenza rispetto alla montante fretta, non solo delle macchine, ma pure dei pedoni (che ormai, si sa, ‘viaggiano’ con un incremento di velocità del dieci per cento rispetto a qualche decennio fa. Ma New York rimaneva stabile nei suoi ritmi e lei contribuiva a questo). Tutto in Arianna era antico ma anche maledettamente moderno, cutting edge.
Ogni tanto si fermava, si guardava intorno, in alto, in basso… Chiacchierava con lo sconosciuto di turno, e non solo per rinfrescarsi la lingua (yankee). Frenetica nello scopo ma placida nell’azione. Decisa, motivata, ma work-sober, quasi astemia.

Se dopo un po’ troppo di alcol c’è bisogno di un po’ d’acqua di fonte, anche il caviale (che pure mi piace) finisce con lo stancare.

Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai. Abbattuto il muro di cellofan, messa alla berlina ogni timidezza, la contiguità tra i due si fece comunione. E comunicarono.
Le parole tra lui e Gaia (il nome della ragazza non era più un segreto per Lorenzo: anche se avrebbe fatto più fino saperlo dopo...) si rincorrevano tra le balze dei loro territori ora senza più confini; i pochi silenzi sembravano fatti della stessa stoffa delle parole. Silenzi sempre più rarefatti, pronti però a riprendere, man mano, vigore.
Sintonizzati sulle stesse frequenze, Gaia e Lorenzo ebbero, ontemporaneamente, la sensazione panica (nel senso bucolico) di essere un tutt’uno con l’erba, i fiori, i cespugli; con il vociare dei ragazzi e delle ragazze che percorrevano, proprio in quel magico istante, il sentiero sottostante. Col flautare della brezza settembrina, tutt’uno col battito del cuore della formica che dalla mano di lui era passata a quella di lei...
Il tempo, fino a quel momento acerbo, giunse a maturazione e stillò gocce di Kairòs: il tempo propizio pensò bene di fermare le lancette del Chronos, del tempo qualunque (e qualunquista).
Come può esserci Eros senza Imeros? Amore senza Desiderio? I due, ciascuno prima perso nel suo viaggio al termine della notte, si avvicinarono sempre più (la formica...), fino a sfiorarsi in più punti strategici. Un lieve, improvviso, fruscio d’aria increspò i capelli di lei, facendoli vibrare sul viso di lui. Furono uno: lo stesso misterioso montante desiderio, la stessa cruda sensualità che si offriva spontanea e naturale. Un’aspra dolcezza (l’ossimoro…) che fluiva sottopelle, come in rivoli sotterranei mai esplorati. Lo stupore e l’innocenza dei sensi. Complicità e confidenza tra i corpi e le menti (e il luogo). L’eros che si fa ethos.
Lorenzo e Gaia: il corpo di lei abbandonato accanto al suo, le vibrazioni del suo respiro che si accordavano armoniosamente con quelle delle sue membra. Una sinfonia di bassi, di acuti, di silenzi, che sembravano fatti della stessa organza dell’ambiente circostante. Magico, soprannaturale, ma vibrante di passione, di vita, carne e sangue...
Come può esserci Eros se non c’è Afrodite? Più che Laing poté Plutarco!
Forse che vi consiglio di uccidere i vostri sensi? Io vi consiglio l’innocenza dei sensi... Il tempo sempre sospeso, le sensazioni fisiche, epidermiche, tattili, cutanee, s’intrecciavano sempre più con le vibrazioni scaturenti dal profondo; non solo dell’anima, del midollo, dello spirito, ma sgorganti dalle profondità pelagiche del tempo, dei loro tempi... Nietzsche che flirtava con Plutarco.
Se c’è Eros senza Afrodite, è come un’ubriacatura senza vino, procurata da una bevanda fatta con fico o orzo, è uno sconvolgimento senza frutto e incompleto, che presto nausea e disgusta. In quel momento ‘celeste’ e in quella situazione ‘terra-terra’, impastato da sapienti mani, l’intreccio tra vita (vite), cultura (pane) e natura (pan) si fece realtà viva davanti ai suoi occhi stupefatti. Fluendo al di sotto della crosta epidermico-sensoriale ispessita dal tempo. Rotta dal ciceone offerto da Gaia (Circe? Demetra?) a Lorenzo (Ulisse? Proserpina, certo no...), ormai un iniziato ai misteri di Pugnochiuso, il luogo scelto per la visione suprema.
Sophia divina: una volta agitato, l’inciucio stava per raggrumarsi; il vino e l’orzo (con un po’ di miele e spezie) erano lì pronti a sortire il loro effetto su Lorenzo. Che, per la prima volta in vita sua, sentì l’akedia – l’accidia, il mal di vivere che spesso lo assaliva come il demone di mezzogiorno – lasciar definitivamente il posto a una ‘santa’ arroganza: nell’intreccio con Gaia, Lorenzo scoprì l’elogio della riuscita.
“La fiducia in se stessi è l’essenza dell’eroismo.” Superata, in quell’attimo di vita, l’antitesi tra spirito e sensi, trasfigurato e sublimato da questa speciale ebbrezza, libero dal passato e dal futuro, Lorenzo sentì di essere destinato al successo. Una nuova fiducia in sé, scaturita dalle sorgenti dell’essere, una forza pelasgica, un’‘emersoniana’ self-reliance in divenire (e per l’Avvenire), il tramonto di ogni passato, l’emergere di un nuovo Sé, un far sì che i morti seppelliscano i loro morti.
Il terribile era accaduto…

«È vero, se ne sente la mancanza. Ma anche il desiderio. Usque ad sidera, usque ad inferos. C’è proprio bisogno di coach in questo mare in tempesta. Delle stelle che ti orientino. »
Lorenzo, risvegliato dal ‘flash’ biblico, ancorché accucciato sgusciò in una performance siderale a sorpresa (prima, forse per il vocio tutt’intorno, non aveva afferrato il termine, coach, o aveva fatto finta; ma lo conosceva bene, sia pure da poco tempo. E conosceva bene pure lei…).
«Sì, il coaching è quello che più si adatta ai tempi d’oggi. Specie poi per chi ha fretta (e chi non ne ha?), per quanto oggi si stia tornando ai ritmi lenti. Lenti ma rock. Finalmente… (Lorenzo non aveva mai amato la fretta dei robot gasati o dei bipedi schizzati di cui erano piene le strade e i marciapiedi). Sto leggendo ‘Economia dell’ozio’, del sociologo Domenico De Masi (ma quanti libri leggeva contemporaneamente Lorenzo?!). Un attimo, ti cito un passo interessante...»
Lorenzo prese a prima botta il libro dalla borsa da mare (una matrioska quanto a letteratura) e si tuffò, anche qui a colpo sicuro, nella pagina deputata (fortunatamente in superficie).
«“Al pittore David, che gli chiedeva come preferisse essere ritratto, si dice che Napoleone abbia risposto: “Sereno su un cavallo imbizzarrito” (…) Imbizzarriti su cavalli sereni ci appaiono, invece, molti intellettuali di professione, molti studenti assillati dalla fretta di apprendere, molti moderni capitani d’industria con le coorti di manager che – punk in doppiopetto – praticano oggi le virtù marziali e contagiose della competizione globale.” E aggiungo io, tanta gente che riempie la giornata con tante corse inutili dietro al nulla. Non il Nulla, quello con la maiuscola, il Nulla mistico in cui il ‘Dio nascosto’, l’En Soph, frantuma il diaframma che lo cela alla vista degli uomini; non la ‘corona eccelsa’, il cratere magmatico in cui tuffarsi per riemergere bagnati di vera vita, ma il nulla minuscolo, quello che sarebbe mille volte meglio riempire con un ozio produttivo (c’era ancora il sapore salato delle gocce delle ‘nuotate’ teologiche di Gaia sulla sua pelle…). Tempi di pausa o attese sgradite, sfibranti (alla posta, all’aeroporto, tra un impegno e l’altro), da riempire, piuttosto, con qualcosa di ‘significativo’, di vibrante, dissonante (qualche giorno prima Lorenzo aveva fermato il tempo soffermandosi su alcune sfrenate riflessioni sull’otium ‘produttivo’ stil(l)ate da Marcello Veneziani, altro suo conterraneo della rive droite). Innanzitutto, letture: non diceva forse Isidoro di Siviglia che la crescita dello spirito deriva dalla lettura? E il cardinale Martini: “in una mano la Bibbia, nell’altra un giornale.” Per non parlare di Bonhoeffer: “la Bibbia sul pulpito, al lavoro, sull’inginocchiatoio…” Ma torniamo alla lentezza (la lentezza della poesia ci salverà dalla frenesia del mondo…), al pathos della distanza, contro il bieco e cieco pathos dell’attivismo. Le pause non sono inutili, sono i momenti più produttivi della giornata e della vita! La pausa è azione. Recuperiamo, diluito ogni giorno, lo shabbat, il riposo, l’otium, il sabato divino. Che non è ancora terminato. Ed è anche lui buono. Shalom! Approfittiamone per meditare, fare abbozzi di programmi per cambiare la nostra esistenza (ed essenza). Diamoci anima e corpo alla cultura, agli altri, allo sport, alla danza. Galatea, divertiti, gioisci, godi…» 
Galatea non se lo fece ripetere due volte e balzò su Lorenzo, per sedurlo seduta stante (in pratica, violentarlo alla fachiro sulla ghiaia chiodosa della morbida baia di Pugnochiuso). La presenza della gente intorno valse a  dissuaderla (di necessità virtù): d’altronde, la vacanza era solo al bocciolo.
Lorenzo, scampato il pericolo, sputato il nocciolo, prese a sua volta la palla al balzo. Non era impreparato sull’argomento: aveva in pugno, non solo l’elogio della pigrizia (bonjour paresse!), ma, per sopraggiunta necessità, la modernità della malinconia (proprio lui che incoraggiava il Pensiero Positivo e il fou rire – ma la malinconia, quella dell’otium, è bella. Bella di giorno. Belle toujors).
Si schiarì in volto e, raggiante, illuminò contorno e ripieno del telo da mare di Galatea, dissolvendo l’incombente ombra dell’ombrellone reboante. Poi diede fiato alle trombe: una jam-session sul coaching (negli ultimi mesi aveva letteralmente saccheggiato i siti internet alla ricerca di ‘reperti’ e tonalità nuove), a mani levate e passo sicuro (sia pure su virtuali tacchi a spillo. Quelli di Galatea erano reali: solo il pietrisco della spiaggia era riuscito a convertirli in più opportune infradito rasoterra, sia pure stilose).
«Il coaching è ‘allenamento’ dell’anima per migliorare le prestazioni del corpo. Corpo olisticamente inteso: la triade paolina corpo, anima, spirito. Un tutt’uno (alla giudea), ma, platonicamente (e cristianamente) separabili. Ognuno col suo viaggio. Lo so anch’io, il coaching è un processo interattivo short term, un programma dinamico focalizzato, più che sulle cause, sulla soluzione. Ti aiuta a crescere, a elaborare le emozioni e a gestirle, a creare equilibrio e produrre i risultati desiderati. Ti aiuta a focalizzarti sul malanno e sui punti di forza interiori per superarlo… ma soprattutto punta a fare goal.»
Un sorriso marpione accompagnò l’ultima stoccata, dopo di che il tacchino ritornò pulcino.  


La notte è all’epilogo e non è tutta elegia. Gli spaventi notturni svolazzano bruschi e ruvidi su rive altrimenti laide, qui solo il corrusco (ma sempre brusco – e lusco) tremendum di Diana. Elogio della pazzia, nessuna liala dell’eros: solo stille di vita al fulmicotone. Tutto il parterre è un solo uomo, una sola donna: lei, la nostra Lorelei (chioma sciolta: non è cotonata). Ma nessun utero protettivo: ciascuno è nella sua ‘(dis)comfort zone’.
Tranquillità scattante, asana yoga sul piede di guerra, niente di sciatto (e nessuno, vivaddio, chatta… È tutto dal vivo). Le ore di ieri (il passato ‘inutile’) sono agli sgoccioli, sento odor di grandi piogge (Après moi le déluge).
Mi accoccolo a fianco di Chloe, lei dà l’occhei (la notte occhieggia sempre più a giorno). Maxwell e D’Angelo (due crooner cool & lounge da deriva dei sensi) ci cullano onda su onda, per poi sbatterci sulla battigia: di lì ci rotoliamo duna su duna (i divani sembrano moltiplicarsi e svuotarsi: ma sono tutti lì sdraiati o accovacciati che pendono dalle labbra l’uno dell’altra: aristocratica democrazia).
Un brivido percorre le mie regioni (e ragioni) più profonde. Spiaggiato ma felice. Estradato dal mondo, mi rotolo sulla sabbia dei miei ricordi (quelli futuri: Diana ha invertito le lancette del tempo), pronto a non tradire la mission della serata e a spiccare il volo (e poi, tra non molto picchieremo duro, se virtualmente o viziosamente non lo so ancora).
Cambiamo posto. Ci accoglie Yin Yang: due poltrone fuse insieme – materiali che si incontrano, concavità e convessità che si alternano e si compenetrano: elementi di un ossimoro in progress (ma ‘regressivo’), copula per coppie di in-dividui di-versi ma in-separabili. Tutto secondo programma (e pentagramma).
«E non confondiamo scienza con coscienza (Diana continua a sorseggiare, da fata, l’assenzio). Se per Darwin è migliore chi sopravvive – quindi, per lui non è questione di mera ‘qualità’ o di ‘analisi del valore’ –, per Nietzsche, e per me, il migliore è il più ‘riuscito’. Solo lui ha diritto alla vita. Perché in lui c’è potenza di vita, dinamica – non statica – esistenziale. Detto così, sembra crudo, crudele, inumano, meccanicistico, ma non lo è affatto. Tutt’altro, è umano e anche spirituale: il ben-riuscito è la summa e il prodotto di qualità e virtù (nel senso di valori) di provenienza la più variegata (soprattutto, divina – dall’Alto): dalla bellezza di facciata (non è un’offesa, è un vanto) alla linea di sangue (non è un vanto, è un vento – soffia come e dove vuole: ma ha un’Origine…). I ‘ben-riusciti’ non sono i raccomandati, i più ‘dritti’, i più furbi, i più ricchi, gli sgamati… Sono i ‘migliori’, i ‘segnalati’ – e ‘segnati’ (quali? Lo intuisce il vostro cuore ‘profondo’. Lui bussa alla porta – vi ‘sceglie’ – voi siete liberi o no di aprire: la vostra libera ‘risposta’ al Suo libero ‘appello’). Sono loro – gli eletti dall’Origine – i ponti (sospesi) verso il Superuomo. E la mia non è solo kalokagathìa, mito della bellezza e della bontà, ma è qualcosa di più profondo, di meno epidermico. È signum aeternitatis (immancabile, la ‘siringata ipodermica’ di Diana). I ‘malriusciti’, gli uomini-frammento (una ‘legione’…), sono sia il ‘gregge’ sia i ‘porci di Gadara’. Come direbbe Laing, sono in formazione ma viaggiano fuori rotta. Noi, invece, uomini e donne sull’orlo della crisi (la Krisis: la scelta-Kairòs), siamo rotti, siamo ‘a rota’, faremo i rutti, ma almeno siamo sulla rotta…»

Bene, siamo in formazione ma anche in rotta. È tempo dell’otium, della paresse, ma è anche il tempo dell’azione. Dell’azione lenta. Lento pede ma millepiedi. Per dirla ancora con il mio romanzo in progress (un po’ sneakers un po’ tacchi a spillo):

Siamo le membrane plasmatiche del centro e delle periferie urbane, giunzioni occludenti il vuoto delle menti e delle anime, teurgi plastici in cerca di corpi da rigenerare. Col forcipe dello spirito recidiamo le sbarre dell’anima e liberiamo dai ceppi impazienti i dèmoni dormienti. I nostri e gli altrui.

Diamo le ali al nostro angelo. È lì che ci aspetta, dietro l’angolo. È stato fin troppo tempo ad aspettarci nel nostro salottino privato, poi in cantina, poi giù per strada, sotto la nostra finestra. Dai, scendiamo, usciamo dal portone, giriamo l’angolo.

È l’angelo a liberare l’uomo, schiavo delle effimere luci del mondo sensibile e prigioniero nei labirintici meandri delle sue permanenti ombre. È lui a guidarlo, di cielo in cielo, nell’ascesa spirituale e illuminativa verso la realizzazione (qui e ora, per il momento). Sempre che non faccia tutto Lui…



martedì 22 febbraio 2011

BERLUSKA SKY & CHOMSKY



BERLUSKA SKY & CHOMSKY

    
      E sentirete di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori…
Fra nove minuti il Parker-Morris Building non ci sarà più. Se hai abbastanza gelatina esplosiva e la spalmi ben bene sui pilastri delle fondamenta di una costruzione, puoi tirar giù qualsiasi palazzo al mondo.
Prima la piccola apocalisse (col botto) di Matteo 24, poi il gel di Fight Club. Ma noi continuiamo a pettinare le bambole. Comunque, meglio le bambole di pezza che le bambole di carne – se non altro, non briffano: amo’, bacino, attimino…
Fermati attimo, sei bello! Sì, che l’attimo si ingigantisca, diventi ‘attimone’. Fermiamo il tempo, non facciamoci sbranare dalla tigre che divora, ma cavalchiamo la tigre… E poi guardiamola negli occhi. E con Tricarico (quello della prima ora) cantiamo: Venite bambini, venite bambine e ditele che il mondo può essere diverso, tutto può cambiare, la vita può cambiare e può diventare come la vorrai inventare. Ditele che il sole nascerà anche d’inverno…
La stagione del freddo, del buio e delle piogge (acide). E dei rumori (di capodanno e del kaputt mundi). Torri gemelle e gemelli ai polsini (le gemelle ad Arcore). La grande mela bacata, Bacco e Venere inaciditi, l’acido sempre più annacquato. Quasi quasi viene nostalgia delle fumerie di oppio della Bangkok di Emmanuelle… (e del gaio – ma brut – Mario). Insomma, se proprio dobbiamo respirare fumo, fumi (anche quelli – ‘trattati’ – dell’Ilva) e fumisterie varie (la tivvù e le ‘tribune politiche’ ormai ne scaricano più della dantesca palude stigia – eppure, il giuramento sullo Stige era meglio della ‘macchina della verità’ o dell’ordalia medievale: se un dio era sospettato di mentire, Giove prendeva una brocca di acqua dello Stige e gliela faceva bere. Se il dio Stige scopriva che aveva mentito, il dio passava un anno in coma e nove anni lontano dai simposi – e dall’ombra del Cupolone, mi verrebbe da dire. Varrà pure per le nostre tele-politik-novelas?), allora meglio un fumo doc (meglio ancora – è più in ‘tiro’ – dop).

“Ti versi una bella riga sul dorso della mano. Ti porti la mano al naso e la boccetta ti sfugge e va a cadere con nauseabonda precisione nella tazza. Rimbalza una volta contro la porcellana, poi affonda con un tonfo insolente che sembra il rumore prodotto da una grossissima trota per sputare una minuscola esca finta accuratamente preparata.”   
Da Berluska e Sky, passando per il Jay MacInerney di Le mille luci di New York e il 'trota' di Le notti a Milano (solo un sincronismo junghiano, o un lapsus freudiano, o bossiano? Diciamo un tic, un sintomo, un principio di bonjour tristesse), per arrivare ultima fermata? a Noam Chomsky: e qui un attimo di sospirata paresse, un ritorno doce doce a quell’attenzione per il linguaggio che, ossessiva e ‘radicale per Heidegger, è scivolata a quella attuale, da ‘posseduti’ dal cellulare o da fantini di SUV ingrifati (“… dove ci sono le Range Rover non può esserci una gran sete di conoscenza” – così albeggia, in attesa del ‘grande meriggio’, la Grazia Verasani ‘noir’ di ‘Quo vadis, baby?’).

E poi c’è l’uomo ‘normale’: “aspirato dai suoi pensieri, dai suoi ricordi, dai suoi desideri, dalle sue sensazioni, dalla bistecca che mangia, dalla sigaretta che fuma, dall’amore che fa, dal bel tempo, dalla pioggia, dall’albero vicino, dalla vettura che passa...” Questo è l’uomo ‘robot’ (ne parla Gurdjieff, ma un po’ tutti ne aspiriamo qualcosa…). E che dire dei tanti pseudo-manager fuma-fuma (anche solo mamme o babbi che portano il pargoletto a scuola) che impazzano per le strade sgommando come folli su SUV ingrifati, quasi dovessero correre a chissà quale appuntamento ‘capitale’. Alla fin fine tutti stressati (e non sto parlando dello stress positivo – l’eustress – quello del primo bacio o della discesa su una pista di sci, e sei uno sciatore provetto, ma del distress: quello che ti logora la vita, ti avvelena l’anima e ti può condurre sul baratro).
Insomma, da una parte l’uomo robotico (moscio o agitato), dall’altra l’uomo comatoso. Sì, lo so, certe cose ci sono sempre state (è nella natura dell’uomo: un po’ in cielo un po’ a terra…), ma il tam tam dei mass-media – puoi avere tutto subito (dal fast food al prestito su misura, fino al fast love) e devi essere ‘così’ (tacco dodici o rasoterra, tutta-tette o filiforme, grasso è bello…) – ha creato l’era dell’ansia: un continuo mordi e fuggi alla ricerca di una soddisfazione effimera e un susseguirsi di copia-e-incolla di modelli mass-mediatici belli ma impossibili. Dall’eccesso d’informazione all’eccesso di attenzione: si è passati dall’epoca delle ‘grandi narrazioni’ a quella del gossip. Basta cliccare e hai tutto in un attimo: qui le ultime news dalla Kamchatka, lì un contatto face to face con il tuo compagno di banco affacciato su Facebook. Ottimo, pure indispensabile, ma con questo volere tutto, poco, maledetto e subito, abbiamo disimparato, non solo a fare i calcoli a mente, ma a sbrogliarcela con le minime difficoltà quotidiane. Un piccolo intoppo e… il mondo ci crolla addosso. Vediamo subito la montagna nella sua immensità: abbiamo perso la capacità di riflettere, fermarci un attimo e scomporre il problema nelle sue componenti più piccole, ognuna facilmente risolvibile, oppure aggirarlo con uno stratagemma. Allora, perché non seguire l’esempio dei cinesi? Se noi vediamo una lunga distanza nella sua interezza (il che ci spaventa), loro, da sempre, sanno che mille miglia cominciano con un solo passo.
Da Che cos'è la PNL. Come vincere ansia, fobie e dipendenze – Sovera Edizioni Roma

Torniamo a Chomsky, il ‘mago della parola’: per molti anni la sua fama è stata legata alle sue teorie linguistiche (che si opponevano allo strutturalismo): la ‘linguistica trasformazionale’ e la ‘grammatica generativo-trasformazionale’ alla base anche delle teorie del linguaggio ('struttura profonda', 'struttura superficiale', 'mappe del mondo') della Programmazione NeuroLinguistica.
Poi Chomsky si è ‘allargato’ (in un certo senso, ha ‘approfondito’ il ‘senso’ del linguaggio, della langue, della parole. Anche a me accade, e sembra talvolta che mi contraddica. Certo che mi contraddico! Sono grande, contengo moltitudini... per dirla alla Whitman – scherzo... comunque sono anch'io uno della setta dei poeti estinti) e si è dedicato alla stigmatizzazione dell'imperialismo statunitense e alla critica della gestione politica dell'economia e dell'informazione, diventendo una sorta di star del contro-pensiero e del pensiero antagonista, un nemico giurato del mainstream dominante, insomma un guru dell’antisistema.
In questi giorni siti e blog stanno riprendendo una specie di piccolo ‘teorema’ che Chomsky ha espresso sulla la manipolazione dell'informazione, nella sue deriva più temibile: la disinformazione. Ecco qui riassunte le dieci ‘tavole’ ‘osé’ di Noam (Chomsky – in the sky with diamonds. O nel mondo senza Sky – non che le altre tivvù siano la bocca della verità), ossia le dieci regole della disinformazione, i dieci comandamenti del potere mediatico (un po’ Orwell un po’ Huxley).

La prima norma è la "strategia della distrazione". Dice Chomsky: «Consiste nel deviare l'attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti. È anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell'area della scienza, dell'economia, della psicologia».
Seconda norma è quella che potremmo definire "falso problema/risposta demagogica": «Si crea un problema, una ‘situazione' prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desidera far accettare. Ad esempio, si possono lasciar dilagar la violenza urbana e i disordini sociali, oppure creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici».
Terza norma è la gradualizzazione delle soluzioni politiche, e quindi «Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per anni consecutivi. È in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta».
Quarta norma è quella dello spostamento nel tempo: «Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come "dolorosa e necessaria", questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all'idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento».
Quinta norma è il comunicare ai cittadini come fossero bambini. «La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, questa tenderà, con una certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico: come quella di una persona di 12 anni o meno».
La sesta norma è quella che definirei "patemica". «Sfruttare l'emozione – afferma Chomsky – è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un'analisi razionale e, infine, il senso critico dell'individuo. Inoltre, l'uso del registro emotivo permette di aprire la porta d'accesso all'inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti».
La settima, è la progettazione e gestione di un'ignoranza diffusa. «La qualità dell'educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall'ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori».
E quest'ultima norma è legata a doppia mandata con l'ottava. Quella che prevede che il pubblico mediatico si convinca che «è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti. E che questi sono valori positivi e condivisibili».
La norma numero nove è quella del "senso di colpa", e quindi: «Far credere all'individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l'individuo si auto-svaluta e s'incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l'inibizione della sua azione. E senza azione non c'è ribaltamento né rivoluzione, non c'è nessuna possibilità di cambiamento in senso democratico».
L'ultima norma, la numero dieci, è quella che possiamo definire del "doppio binario della conoscenza scientifica". Per Chomsky il vero potere consiste nel conoscere compiutamente i predicati psicobiologici del pubblico (mediante gli assoluti progressi della biologia, della neurobiologia e della psicologia applicata), e «poter confidare sul fatto che i cittadini (scientificamente analfabeti) non siano in grado di conoscere sé stessi».
Insomma, per dirla con un Nicolás Gómez Dávila quanto mai stile Fight Club: I Vangeli e il Manifesto del partito comunista sbiadiscono; il futuro del mondo appartiene alla Coca-Cola e alla pornografia.

giovedì 10 febbraio 2011

DAS WORT

DAS WORT

Parla che ti passa 
pissi-pissi  bau-bau 
bunga-bunga     lele-lele


 All’inizio del libro della Genesi vien detto che Dio creò ogni cosa con la parola. Ossia, diede ordine al caos iniziale; o se si vuole, riempì di senso il vuoto.
La parola ha quindi, in origine, un valore creativo, formativo, diciamo pure ‘magico’
Magia, nel senso di “far accadere le cose”. Parola ‘divina’, e non solo: anche umana (ma col ‘dio-dentro’: l’entusiasmo). Anche Adamo ‘nominò’ gli animali, dette cioè loro un nome: in un certo senso, li ‘creò’, ebbe potere su di loro (che poi di questo suo ‘potere’ – come anche sulla natura in genere – abbia abusato, dimenticando che suo dovere era quello di custodire il giardino, è un’altra storia…).
Questa riflessione è fondamentale “in momenti di grande disperazione, quando le cose tendono a perdere tutto il loro peso e ogni significato si fa oscuro” (Heidegger). Ed è quel che accade oggi: si fanno ‘cadere’ le cose, non ‘accadere’. 
Tutto ormai ci casca addosso, come se fosse verità sacrosanta: ma con-fondendo il reale con il falso …più ‘sola’ che tarocco non si può. Le tre ‘violazioni’ del Metamodello linguistico – la cancellazione, la generalizzazione, la distorsione – la fanno da padrone su giornali e tivvù. È vero, il ‘fake’ (la bufala), c’è sempre stato, spesso anche con effetti benefici (basti pensare all’uso della ‘distorsione’ e del ‘grotesque’ – dall’Arcimboldo a Modigliani, per non dire Dita von Teese – nell’arte e paraggi), ma mai, o quasi, a questi livelli o profondità (altitudines satanae, avrebbe detto san Paolo) di ‘ridicolo’ e ‘parafernalia’ varie.  
Basti pensare a quel simpaticone del premier, quel gran trickster di boutade, che avrebbe telefonato alla questura per salvaguardare le patrie magnifiche sorti e progressive (ma c’è veramente qualcuno che, nell’intimo, ci crede, sia pur pidiellino sfegatato? Impossibile! Sì, anch’io uso il ‘metamodello…). Sarebbe bastato giustificarsi dicendo che l'aveva fatto perché era 'partito' per la bella marocchina... ed era stato preso da un raptus di amour fou (altro che la mubaraccata d'egitto!).
Rimbambito (da coup de foudre) il premier, rincitrulliti da coup de tête noi. Potenza del ‘rimbolsimento’ (rimboldimento, rimbondimento) generale causato dalla tivvù dell’attimino, del non c’è campo, dell’’amò’, un abbraccio e pinzillacchere cantando.
Dai, Suzie Q., say that you will be true and never leave me blue...
Susanna e i vecchioni… Solo che ora le Susanne sono una legione (Ruby, Iris – di fiore in fiore…) e i vecchioni non più i d’Annunzio di una volta. Non c'è più religione (neanche i 'legionari'). E il Sessantotto? Le sue colpe ce l’ha? Certo (e di lì per almeno un ventennio se non ‘battevi’ a sinistra erano guai), ma almeno c’erano Deleuze. Laing, Marcuse, pure Evola…  
E vola vola vola lu cardille. Ora c’è rimasto solo il ‘briffare’ e il ‘bungare’.  Anche il bingo (e molti bingo-bongo). Questo è – ovviamente, non generalizzo, ma neanche cancello e distorco – quello che ci vogliono propinare i ‘legionari’ (nel senso di Gurdjieff, di R. D. Laing e dei Vangeli: mi riferisco alla 'legione' di  demòni che finì nello stagno e noi rischiamo di essere 'irregimentati' come loro...) dell’informazione ‘deformata’. Ma la maggioranza è su ben altri oceani, diciamo pure su ben altre vette. Non siamo all’ultima Thule (o forse sì, boh…).
Torniamo all’uso creativo della parola. Diciamolo con filosofia (anche quella del boudoir – ora c’è solo il “piano di sotto”, la sala del bunga-bunga): all’incontro effimero e sotterraneo promosso dal “mordi e fuggi” attuale (che può avere un senso di tanto in tanto, ma poi ci rende tutti tamarri, o ramarri) è da sostituirsi l’incontro e corrispondenza autentici, lì dove domanda e risposta sono in un rapporto armonico, in accordo, sintonia, empatia.  
Con la sintonia dell’anima è possibile afferrare e riecheggiare le vibrazioni della verità: solo così riusciamo ad ascoltare la voce dell’essere. Ma vanno bene pure le dissonanze alla Cage o alla Stockhausen, purché producano vibrazioni di alta energia, non quella bassa – per così dire, ahrimanica – che si cerca di ‘afferrare’ nei bunga-bunga parties (anche quando non sono finalizzati all’appagamento effimero, ma, come talvolta accade per i presunti seguaci di Kremmer, dell’OTO, crowleyani e affini, indirizzati all'acquisizione del potere magico).
Fatta questa premessa (ma c’è tutto un prologo nei post precedenti), a partire da ora, dopo un’ouverture iniziale, nei successivi post parlerò dell’uso ‘preciso’ e ‘vago’ del linguaggio, ma sempre in senso ‘funzionale’ (Metamodello e Milton model), oltre che delle capacità ‘magiche’ della parola e delle sua attitudini performative. Il tutto finalizzato al miglioramento personale, alla trasformazione profonda, alla peak performance, all’esperienza delle vette. All’Ultima Thule, insomma… E visto che siamo nell’era della velocità (ma il lento pede si avvicina…), cercando di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. Less is more…
Dai, sono buono: vi ‘briffo’ qualcosa già da adesso sul potere della parola (anche the dark side of the moon).

Dalla tonda alla quadra, fino alla parentesi graffa. Dopo la sua morte iniziatica e la rinascita, Galatea, la ex graffitara sempre graffiante (e tonda ai posti giusti, quadrata nella mente, amante del triangolo), dovette affrontare un cammino labirintico, in cui fece esperienza di qualunque cosa. Imparò a far accadere ciò che voleva, a incontrare ciò di cui aveva bisogno, a sconvolgere le situazioni, a trasformare il negativo in positivo, il Male in Bene, il Bene in Male. Volontà e intenzione per controllare, dirigere e ‘fare’. Theta, thetan, thelema…
“Tutto è possibile”: il Landmark Forum (l’ex EST di Werner Erhard, il superguru-coach – anche l’IBM vi aveva  mandato dei suoi dipendenti), da lei frequentato quel po’ che le bastava, l’aveva orientata, consolidando il suo senso di felicità, onnipotenza e ‘benessere diffuso’. Dissodandola da sassi e pietre d’inciampo: sofferenza, malattia, povertà, non erano autentiche, erano una scelta… E lei aveva scelto di ‘vivere’. Alla grande. Da Dio (da Dea).
E poi, la capacità di galvanizzare il ‘cuore’ della conoscenza e dell’esistenza – ossia arrivare alla vera realizzazione del Sé – attraverso la ‘risorgenza atavica’, una sorta di nuova nascita misterica. In alternativa (Galatea era poli-tecnica), la ‘sostituzione delle anime’ mediante la ‘magia avatarica’ (una rinascita del Kremmerz dei suoi primi passi iniziatici). Oppure, la ‘separazione’ dell’elemento ‘solare’  dagli elementi ‘spuri’ – fisico, mentale, astrale – per ‘costruire’, all’interno del corpo ‘ilico’ (quello della massa dei ‘bipedi’ – così li chiamava), il ‘corpo di gloria’, immortale e glorioso sin dai suoi primi passi. Ma era roba solo per clienti ‘speciali’ (un life-coaching a margine, borderline).
Arcana arcanorum, secreta secretorum, amalgami alchemici e filosofali. Tra amrite e coobazioni, Iside aveva fatto l’uovo (osirideo). E di avatar in avatar – mentre il serpente continuava a strisciare… – Galatea insegnava il controllo dell’energia subconscia, quella latente nel ‘deposito’ ancestrale, da ‘riattivare’ e canalizzare a fini creativi: perché solo se il desiderio è subconscio può essere realizzato… In questo c’era lo zampino, o l’unghiata, graffiante, di Slavinski (ma talvolta Galatea, la para…bip, si paracadutava su Paracelso, un classico, da non buttare, per il quale bastava la ferma convinzione psicologica perché scattasse il ‘fiat’).
Fatti e misfatti. Verba volant (et volunt). Sì, il linguaggio che si fa parola, la parola che si fa atto: “nessuna cosa è dove la parola manca” – questo uno dei motti preferiti di Galatea (soffiato a Heidegger, ma da lui stillato, con ‘cura’, da ‘Das Wort’, poesia di Stefan George – lingua vergine, ‘virgo mater’ del sacro cerchio). La parola che ‘nomina’ le cose, le contrassegna, le crea. “Basta la parola…”
Parola coessenziale all’azione. Parola in movimento, in divenire, in estasi. ‘Versi intessuti’, ‘carmi circolari’, parola in cammino. Parola ‘attiva’. Più che ‘parola’, ‘verbo’, azione che si attende una re-azione. Action now. Parola ‘dinamica’, scoppiettante. Parola che grida quando più tace. Parola che canta, sussurra, piange. Nella parola balugina la spiritualità dell’anima. E questa si fa corpo. Per accoppiarsi e poi scoppiare. È la parola che dà sostanza, essere, alla ‘res’. Logos lex: la parola è legge. Logos rex: la parola è re, anzi ‘regina’, e di questo ‘logos’ Galatea era diventata padrona.
Madre matrona. Eppur figlia (dei fiori). ‘Fiore nero’, alla Stefan George, versus ‘fiore azzurro’, alla Novalis. Nondimeno, romantica, la dark lady, sensibile alla musica. T(ar)occata dall’effetto Mozart, il suo Q. I. e le sue capacità linguistiche avevano fatto do-re-mi-fa-sol. Galatea, la para-Q, ‘suonava’ le parole, le sviolinava, arpeggiava, flautava (anche suoni di tromba). Le ‘resettava’. E non sarebbe stata sempre da sola sul set. Per il momento solo un monologo, ma prima o poi lei, Miss Babalon, avrebbe duettato con Sir Set, la sua controparte maschile (Tomás, un macho coi fiocchi, tutto occhi e balocchi).
Fa-sol-la-si… Snocciolava o diluviava, ma talvolta maneggiava la parola con cura, la distillava – “non gettava le perle ai porci”. Se però il caso lo richiedeva, la usava come una spada a due tagli e trafiggeva. E come penetrava! D’altronde, nel suo cerchio, per quanto non si andasse tanto per il sottile, non amavano più di tanto i sacrifici umani (sì, questi erano una prova di ‘fedeltà’ e, soprattutto, fede – e poi il sangue ‘rimpolpava’ gli adepti. Ma, essendo loro – quelli del ‘cerchio’ – più ‘gnostici’, li lasciavano fare a quei diavolacci di satanisti rockettari, o agli ahrimanici – così chiamavano i satanisti ‘nudi e crudi’: loro, quelli del ‘sacro kreis’, erano più colti, più snob …’luciferini’). Comunque, quando ci voleva ci voleva! E se fosse stato necessario, Galatea era pronta a tutto. Il gioco valeva la candela.
(da Gocce di pioggia a Jericoacoara)