martedì 8 settembre 2009

SE DEUS QUISER

SE DEUS QUISER
(URCA... CHE COPACABANA!)

È settembre. Estate calante, cuore ancora caliente. I bollori spiaggiaioli ancora in ballo. E il bello deve ancora venire…

Dopo una lunga siesta summertime riprendo le fila del discorso. Una scorsa intorno: tutti di nuovo in corsa. Sursum corda! Anch’io al cardiopalma (si fa per dire: a che servirebbe allora la meditatio transcendentalis?), ancora in bilico tra PNL, Spirito, bollenti spiriti e balle spaziali.

In ogni caso, devo pur ricominciare... Niente di meglio, allora (hic et nunc), di un’abbeverata al rio (de janeiro).

Mi tuffo nelle acque del mio inedito Gocce di pioggia a Jericoacoara (lo tengo ancora in caldo – getta il libro nelle acque – del web – prima o poi qualche editore lo pescherà…) in cerca dell’ostrica e, da buon ostetrico (socratico), estraggo la perla (nera – forse una cozza?).


Se Deus quiser – se Dio vuole – lo slogan carioca. E Dio aveva voluto… e il due di cuori aveva fatto poker, barando pur di giungere a destinazione. Rio de Janeiro, ‘la città meravigliosa’ – svelata a gennaio (1502) per turbare i sonni dell’Occidente, riscoperta a settembre (2005) per colorare i sogni del nascente Oriente di Arianna e Tomás –, era lì a disposizione, con le sue montagne a cuneo e il Pan di Zucchero emergente sulla dolce Baia di Guanabara. Pronta a essere sciolta in bocca, tra un boccale di birra e un baccanale. Traboccante di vita, invitante, svogliata e svitata.

Rio, città incantata e incantatrice, tragedia e farsa. Giungla urbana (non solo per i suoi dieci milioni e passa di bianchi, neri, gialli, meticci di ogni nuance, ma, alla lettera, per la foresta ‘cittadina’ di Tijuca, la più vasta del mondo). Concresciuta tra i morros a pan di zucchero (e il Corcovado, col suo Cristo Redentor, concreto – in ogni senso) e la giugulare di spiagge, graffiata dalle smozzicate unghie nere delle favelas. Alla luce del cielo più blu (di tutto o globo).

Blu dipinto di blu. E il mare a fare da pendant. Centocinquanta i quartieri; dal top al down, cento chilometri di praias da favola (top of the tops), baie, cale e calette. Con Tomás, caliente aitante cobra con gli occhiali (rayban), che calcava il pedale della sua cabrio nera, scalando marce e scialando benzina, pur di farsi una sgroppata su Rio (e Arianna).

Che tour de force! E senza forse. A ritmo di bossanova, armonia ritmica sincopata (ma Arianna la sincope l’aveva rischiata a Jericoacoara). Partenza obbligata da Copacabana, prime sgommate (traffico permettendo) sulla mitica Avenida Atlântica, bordeggiando filo filo(dentale) la baia. Poi a capofitto nella gola profonda. Non prima di aver dato una botta a Botafogo, l’intellettuale, e aver fatto una calata alla mini-praia di Urca, bocconcino con contorno di liberty e alsaziano, inginocchiata (e loro distesi) sotto o Pâo de Açucar (urca, che panorama!).

E poi di nuovo al galoppo (solo qualche sosta, più o meno prolungata, per un sorso di schopp – la birra alla spina): Vermelha, Leme, la surfeggiante Arpoador e la Ipanema fashion – quella di Vinicius de Moraes e Tom Jobin, e della loro – partenariato d’amore? – garota “piena di grazia” (È lei la ragazza che sta passando, dondolandosi dolcemente…). Di seguito Leblon, dalla sabbia fine, esprit de finesse e jeunesse, spiaggia boom di giovani sirene e tritoni, surfici e veleggianti. E, dappertutto, i bum bum.

«Lo sai che nel 1984, l’ultimo dell’anno, su questa spiaggia erano tre milioni e mezzo al concerto di Rod Steward? Il top dei tops dell’audience nella storia della musica, e forse non solo…»

Gli occhi di Tomás si fecero lucidi, quasi volessero distillare, centellinare, per poi all’improvviso vomitare, ricordi accuratamente sepolti sotto la sabbia.

«Avevo solo otto anni, ma sai, sono sensazioni tatuate indelebilmente sotto pelle… Notte magica: mi trasformò, mi fece fare il salto verso l’ignoto, verso altri lidi. L’atmosfera, la musica, la massa umana, la messa laica, gli spiriti svolazzanti e guizzanti, Jemanjá… Mio fratello – diciotto anni – e la sua ragazza – una garota bum bum – rimasero a terra, distesi sulla sabbia. Rod li aveva stesi… E io presi letteralmente il volo. E mi ritrovai cullato dalle braccia di Jemanjá…»

Arianna, che nello strippante trip Jericoacoara-Rio aveva finalmente tubato senza ombra di turbamenti col bel Tomás, si lasciò andare anche lei alla brezza dei ricordi. Dancing out of the darkness. Dolcemente, senza rabbia, senza rancore, anzi con un po’ di nostalgia. Rivisse condensate le ore vellutate di lei e del suo Lorenzo distesi velvet underground ad aspirare musica, stretti (giù e su) cheek to cheek, ispirati, carezzati, titillati, graffiati dalla voce di Rod e leniti da quella di Jacques.

“Une orange sur la table / Ta robe sur le tapis / Et toi dans mon lit / Doux présent du prèsent / fraîcheur de la nuit / Chaleur de ma vie.“ Un amore alla Prévert, appassionato, passionale, di profonda amicizia… Carnale, spirituale, sensuale. Senza limiti. Al di là del bene e del male. Ma ora malandato. Abbandonato, ma, chissà… Che Lorenzo non fosse, come sempre, il backup guy, l’(eterno) ragazzo di ritorno? Ruota di scorta? No, mai! Un po’ sgonfio, questo sì.

Lui, ancora lui, sempre lui, il palloncino si stava gonfiando, cominciava a risalire a galla… Sempre lo stesso ritornello, ma questa volta una bella cover, più intrigante del solito.

Cover, remix, unplugged? Ma guarda un po’… era la prima volta che, da maggio (o giù di lì), pensava veramente a Lorenzo con un tocco di nostalgia e affetto! E con qualche brivido.

Samba de minha terra. La sabbia impalpabile era piena di polpa (ma sarebbero seguite ore da pulp fiction). Le ragazze di Copacabana: una più pescosa dell’altra (ogni tanto un frutto marcio, alla cellulite); i ragazzi: pere cotte (tra cui rotolava qualche bel cocco, brunito fuori, bianco di dentro).

Il latte scorreva a fiumi, erano lì l’uno per l’altra. E le cocu magnifique? A casa… (Arianna non era per nulla convinta che Lorenzo fosse andato da solo a Pugnochiuso.) Il brivido precedente aveva lasciato il posto a nuovi tremiti. Lorenzo aveva preso il volo, Tomás era atterrato, sia pure fortunosamente, sulla sua pista. Dissestata. Due – Arianna e il secondo Adamo (con qualche riserva…) – in uno: lei in fio dental (mai arrischiato fino ad allora), lui quasi. Una mimesi del meglio della fauna locale. Quest’ultima a fare da terzo incomodo, da convitato di sabbia (in lei c’era un po’ della pantera, da lui faceva capolino il giaguaro). Arianna, donna leopardo (alla Moravia?).

Toda joia toda beleza. Flora e fauna ibridate da gemme alloctone: un po’ teutoniche, un po’ latine. E lei, internazionale. Arianna, penetrata dal genius loci, aveva azzardato il microkini (leopardato) a Copacabana, dopo un assaggio del più pudico bum bum made in Ipanema, multicolore e glamour. Incredibilmente in forma, nonostante gli anta (e sempre bootylicious, come Beyoncé, e dal booty/bumbum sempre in piena forma, alla Jennifer). Donna ‘a clessidra’, rapporto vita fianchi alla Jessica Alba, quindi non solo ‘bonita’, ma più intelligente della media (secondo i ricercatori, quelli di bocca buona). Un po’ Faust, un po’ Dorian Grey, un po’ Shakira (aveva preso in primavera un po’ di lezioni di danza del ventre, il che collaborava al sostentamento del suo ‘asso’ alla Lopez).

Ben sceccherata, lei. E lui, l’asso (sotto la manica), delizioso, sciccoso, scioccante. Scacco al re. Shake shake shake… shake your booty. Se a venti faceva girare le testa agli uomini, ora – fatto il bis e passa (di anni) – a uomini e donne. Bipartisan. Un colpo al cerchio e uno alla botte. Bum chicky, chicky bum. Shake ya bum bum…

A cerchi concentrici (anzi, eccentrici): dopo il tour panoramico, lei e il gringo (in effetti, era un po’ brasileiro un po’ europeo) fecero tappa all’isola di Paquetá. Ma nessun tuffo, se non nelle viuzze dal gusto antico, guancia contro guancia (quella di Arianna, arrossata, traccia inequivocabile di un contropelo troppo duro…). L’Área de Preservação do Ambiente Cultural valeva bene una visita accurata, con lo stetoscopio. Ma qui non giocarono al dottore. Tornarono alle radici, all’Architettura, allo spazio che si fa forma. Policromia di casette d’antan, nulla che grattasse il cielo. Uniche fughe in avanti (anzi, retrò), le case dell’architetta visionaria anni ’50, la free spirit Ormy Toledo, sulle orme e dentro la quale (la sua architettura) entrambi, specie Tomás, vollero andare a fondo (ogni viaggio è un’avventura culturale), soffermandosi non poco dinanzi alla sua vasta produzione in technicolor, qualche volta entrandoci dentro.

Diverso l’approccio con la praia do Grumari. Qui nessuna costruzione, solo palme e tropici. Puro capricorno. (per lei, ‘cancro’ impuro – come Lorenzo, del resto). Spazio nature. Caprice de Dieu. Natura informale. Sabbia e poi sabbia, mare turchese, lontani dal sabba metropolitano. E da ogni gabbia. Qui, quasi con rabbia, Arianna osò il topless che aveva lasciato nel cassetto dei ricordi (la Porto Santo Stefano anni ‘70, più qualche puntatina sull’albeggiante Costa Smeralda da sceccherare e quella Azzurra sul viale del tramonto). Al limite del nude look (a Copacabana, per quanto filodentale, era pur sempre un due pezzi).

Amazzone per caso, femmina per libero destino (l’ossimoro al quadrato…), Arianna: creatura dell’estate (per nascita e declinazioni). Estasi pura. Sempre in movimento. Bionda. Come Janey, una delle Four blondes di Candace Bushnell. E quando un uomo si trova davanti a una bionda: “L’attività cerebrale diminuisce, il quoziente intellettivo scende, le capacità cognitive vengono in buona parte ibernate.”

Arianna, anche lei bionda a pezzi. Ma sempre Sex and the City. Sia pur candida (Sesso? Sì, siamo italiani…). L’abbronzatura, sempre più dorata, con scaglie di cioccolato. Fondente. Arianna alla fonda nel Nuovo Mondo.

Fusa, confusa? Sexual healing? Non sapeva cosa pensare. Circonfusa di nuova luce? Cominciava a pensarlo.