mercoledì 25 febbraio 2009

Voulez vous coucher avec moi? (Remix) A caccia del coach

Sottotilo:

Dalla junk city alla junk soul (ora sempre più funky)


Coach: termine che dal campo dei ‘pallonari’ (parlo di calcio, s’intende, ma non tralascio i ‘caciaroni’) è rimbalzato su quello, sempre in terra battuta, di psicologi, counselor, ‘formatori’, e giù andando.

Coach: termine ai più ascoso e astruso (in effetti, è un intruso intrufolatosi di soppiatto nella loquela sempre più piatta e ‘desertizzata’ della massa bipede starnazzante – ma c’è sempre chi, dal basso e dall’alto cerca di tenere alto il vessillo della Parola: Bonolis, se non ci fossi bisognerebbe inventarti! Ma anche tu, Laurenti, non sarai di lingua sciolta, ma ci fai, se non sdilinquire, scompisciare: il tuo squittire e strogolare ci strega…).

Il deserto cresce, guai a colui che cela deserti dentro di

Termine di moda, fashion, dicevo, come del resto la sempre più ‘cult’ PNL (specie in ‘rete’ – visto che parliamo di pallone), in voga (anche se spesso ‘vaga’) tra ‘iniziati’, ‘orecchianti’, ma anche gente ‘scafata’.

In ogni caso, che piaccia o no, ormai del coach e del coaching non si può più fare a meno, specie per chi vuol progredire in campo professionale e imprenditoriale (per non parlare dell’arena – ci sono gladiatori, leoni e altra fauna e… flora – dello show-business e, di conseguenza – scusate la ‘scivolata’ demagogico-qualunquista –, della politica: riguardo ai risultati di un buon coaching, al di là delle altre componenti di successo, basti leggere il recente Ma Obama ha usato l’ipnosi? vai al mio post del 23 dicembre scorso).

Quindi, rimettendo la palla in campo, andiamo in porta e cerchiamo di fare goal (che è poi il fine ultimo del coach e, soprattutto, del coachee, il cliente). Cos’è, in definitiva il coach? È un ‘allenatore’ (trainer) che ‘addestra’ individui ‘sani’ (nelle varie tonalità dal ‘bianco sporco’ – non esiste il bianco che più bianco… – al ‘grigio’) a ‘tirare fuori’ tutte le potenzialità (inespresse o solo parzialmente ‘attivate’) per indirizzarle verso un obiettivo desiderato (traguardo, obiettivo, goal).

Tirando le somme (e i remi in barca), il coach sostiene ‘empaticamente’ il coachee e lo aiuta (ristrutturandolo, resettandolo) a passare dallo ‘stato attuale’ (spesso ‘inespresso’, loffio) allo ‘stato desiderato’.

La sua mission è, dunque, quella di impedire che come fu per uno dei servitori della parabola evangelica i talenti che ciascuno ha (che siano pochi o molti, poco importa) vengano ‘sotterrati’ (come spesso accade per una serie di motivazioni che la PNL ben sa), bensì li fa ‘fruttare’.

Il coach, con il suo bagaglio culturale, la sua ‘tecnologia’ psicologica (meglio ancora, psico-spirituale), accompagna il coachee nella sua ricerca di individuazione e crescita (empowerment), mediante la messa in luce della sua essenza (il suo 'nucleo' spirituale - vedi l''approccio del diamante' di Almaas, oppure il concetto di 'ghianda' e di 'daimon' di Hillman, per non parlare delle ricerche di Assagioli e della 'sua' Psicosintesi e naturalmente, ça va sans dire, della grande lectio divina di Gesù Cristo...).

È, in definitiva, un mentore (‘monitor’, monitore, in fin dei conti anche consulente, counselor) che insegna, offre doni, inventa e dà consapevolezza, motivazione e dissemina informazioni (apre molte ‘finestre’).

È spesso il ‘tipo’ dell’archetipo del genitore o del vecchio saggio, o ancor meglio, dell’ex-eroe (e infatti la PNL si fonda sul modellamento, ossia il 'ricalco' di personaggi che hanno avuto successo), il quale, sopravvissuto alle iniziali prove della vita, usa i doni del suo sapere e della sua saggezza per far crescere il suo 'allievo'. È lo Zarathustra che scende dal monte per portare al mondo i suoi doni…

Fermate il mondo, voglio scendere!

A proposito, anch’io vi do un dono.

Sempre dal mio Gocce di pioggia a Jericoacoara (in attesa di un mio prossimo manuale sull’argomento), alcune ‘gocce’ di coaching:


«A cuccia, coachee!»

Galatea si alzò un attimo e puntò il dito contro Lorenzo (con l’altra mano continuava a giocherellare con la rosa-croce – un più intersecato, barrato, da una x – appesa sfrontatamente al collo piacevolmente modì).

«Che?» (non quello del ‘diario della motocicletta’: Guevara, questo sì che era un must per Lorenzo – calmo sì, ma sempre rivoluzionario. “Une passion pour El Che ”, di Jean Cau, lo aveva fatto entrare nei suoi ranghi.)

«Sì, coachee, cliente del coach. Io sono una coach, una life coach. Meglio, una peak performance coach. Un po’ caucciù un po’ babà. Dolce e duttile, ma anche dura se necessario. Sì, mio caro Alì Babà… Dolce, ma mai da gabbare. Un gabbiano…»

Galatea spiccò il volo (col pesciolino in bocca – quello appeso al collo di Lorenzo: anche questo, ma svogliatamente, modì).

«Coach, termine di moda, fico, modaiolo, trendy, ma operativo, efficace, ficcante. Eccome... Dai, Lorenzo, so che con te si può parlare alto e profondo. Tu sì che puoi mangiare la mela e non metterti poi la foglia di fico. Seguimi, che t’insegno qualcosa. Da cliente ti farò mio partner…»

Passò al dunque. Cominciò a snocciolare ‘arachidi’ e ‘ciliegine’. Vari assaggini per saggiare il ‘grande saggio’ (così lo chiamava, per sfotterlo).

«Mettiti bello comodo. Meglio riesci a rilassarti, meglio sei capace di operare. Dopo di che registra tutto quello che ti dirò. Apri i cassetti della memoria e poi, a giochi fatti, non chiuderli a chiave.»

Lorenzo obbedì e Galatea, la romanina (romanaccia d’origine – trasteverina doc –, poi toscanaccia d’adozione, ora ‘ubiqua’), dopo averlo addolcito con un bacio alla nocciola, aprì la sua cassaforte e tirò fuori le prime ‘perle’ (coltivate).

«Se vuoi star bene e partire ogni giorno col piede giusto, per prima cosa copia e incolla i tuoi pensieri positivi, duplicali e ripetili più volte che puoi: in questo modo potrai maneggiare la mente, cioè la base operativa di ogni tua azione. Questo come premessa. Poi fa’ qualcosa di bizzarro: rompe la routine e t’induce a pensare che la realtà è quella che tu decidi, non quella che ti viene imposta dall’esterno. E sii sciolto, libero, sfacciato… Se ti trovi a disagio, in imbarazzo, emozionato, mentre sei ‘coinvolto’ con chi ti è di fronte, respira dentro di te la sua presenza; inspirala con piacere, con voluttà, e rilassati poi nell’espirarla; e ripeti, insisti, finché non ti senti a tuo agio con lui (meglio, con una ‘lei’: con questo sistema andrai forte all’attacco della ‘preda’…). È un modo pratico per incominciare a imparare a gestire i tuoi stati d'animo E non ho finito. Vedo che con me sei a tuo agio, per cui ti clicco un’altra chicca (parlava un po’ come Gaia!). Questa è davvero chic: Trasforma il ‘voglio’ in ‘dare’, ossia fa’ finta di dar via la cosa che vuoi, fingi di non farci caso, che non t’interessa. Dalla indietro, non accettarla, restituiscila. Ma solo virtualmente. Accadrà invece che, non solo sarà tua, ma l’avrai oltre ogni misura. Comprendi il senso, viziosetto caro? Il ‘voglio’ indica una mancanza, il dare significa abbondanza (al che Lorenzo si ricordò del detto evangelico: “Cerca prima il Regno e avrai ogni altra cosa…“).»

«È vero, se ne sente la mancanza. C’è proprio bisogno di coach in questo mare in tempesta.»

Lorenzo, risvegliato dal ‘flash’ biblico, ancorché accucciato sgusciò in una performance a sorpresa (prima, forse per il vocio tutt’intorno, non aveva afferrato il termine, o aveva fatto finta; ma lo conosceva bene, sia pure da poco tempo. E conosceva bene pure lei…).

«Sì, il coaching è quello che più si adatta ai tempi d’oggi. Specie poi per chi ha fretta (e chi non ne ha?), per quanto oggi si stia tornando ai ritmi lenti. Lenti ma rock. Finalmente… (Lorenzo non aveva mai amato la fretta dei robot gasati o dei bipedi schizzati di cui erano piene le strade e i marciapiedi). Sto leggendo ‘Economia dell’ozio’, del sociologo Domenico De Masi (ma quanti libri leggeva contemporaneamente Lorenzo?!). Un attimo, ti cito un passo interessante...»

Lorenzo prese a prima botta il libro dalla borsa da mare (una matrioska quanto a letteratura) e si tuffò, anche qui a colpo sicuro, nella pagina deputata (fortunatamente in superficie).

«“Al pittore David, che gli chiedeva come preferisse essere ritratto, si dice che Napoleone abbia risposto: “Sereno su un cavallo imbizzarrito” (…) Imbizzarriti su cavalli sereni ci appaiono, invece, molti intellettuali di professione, molti studenti assillati dalla fretta di apprendere, molti moderni capitani d’industria con le coorti di manager che – punk in doppiopetto – praticano oggi le virtù marziali e contagiose della competizione globale.” E aggiungo io, tanta gente che riempie la giornata con tante corse inutili dietro al nulla. Non il Nulla, quello con la maiuscola, il Nulla mistico in cui il ‘Dio nascosto’, l’En Soph, frantuma il diaframma che lo cela alla vista degli uomini; non la ‘corona eccelsa’, il cratere magmatico in cui tuffarsi per riemergere bagnati di vera vita, ma il nulla minuscolo, quello che sarebbe mille volte meglio riempire con un ozio produttivo (c’era ancora il sapore salato delle gocce delle ‘nuotate’ teologiche di Gaia sulla sua pelle…). Tempi di pausa o attese sgradite, sfibranti (alla posta, all’aeroporto, tra un impegno e l’altro), da riempire, piuttosto, con qualcosa di ‘significativo’, di vibrante, dissonante (e qualche giorno prima Lorenzo aveva fermato il tempo con alcune sfrenate riflessioni di Marcello Veneziani, altro suo conterraneo della rive droite). Innanzitutto, letture: non diceva forse Isidoro di Siviglia che la crescita dello spirito deriva dalla lettura? E il cardinale Martini: “in una mano la Bibbia, nell’altra un giornale.” Per non parlare di Bonhoeffer: “la Bibbia sul pulpito, al lavoro, sull’inginocchiatoio…” Ma torniamo alla lentezza (la lentezza della poesia ci salverà dalla frenesia del mondo…), al pathos della distanza, contro il bieco e cieco pathos dell’attivismo. Le pause non sono inutili, sono i momenti più produttivi della giornata e della vita! La pausa è azione. Recuperiamo, diluito ogni giorno, lo shabbat, il riposo, l’otium, il sabato divino. Che non è ancora terminato. Ed è anche lui buono. Shalom! Approfittiamone per meditare, fare abbozzi di programmi per cambiare la nostra esistenza (ed essenza). Diamoci anima e corpo alla cultura, agli altri, allo sport, alla danza. Galatea, divertiti, gioisci, godi…»

Galatea non se lo fece ripetere due volte e balzò su Lorenzo, per sedurlo seduta stante (in pratica, violentarlo alla fachiro sulla ghiaia chiodosa della morbida baia di Pugnochiuso). La presenza della gente intorno valse a dissuaderla (di necessità virtù): d’altronde, la vacanza era solo al bocciolo.

Lorenzo, scampato il pericolo, sputato il nocciolo, prese a sua volta la palla al balzo. Non era impreparato sull’argomento: aveva in pugno, non solo l’elogio della pigrizia (bonjour paresse!), ma, per sopraggiunta necessità, la modernità della malinconia (proprio lui che incoraggiava il Pensiero Positivo e il fou rire – ma la malinconia, quella dell’otium, è bella. Bella di giorno. Belle toujors).

Si schiarì in volto e, raggiante, illuminò contorno e ripieno del telo da mare di Galatea, dissolvendo l’incombente ombra dell’ombrellone reboante. Poi diede fiato alle trombe: una jam-session sul coaching (negli ultimi mesi aveva letteralmente saccheggiato i siti internet alla ricerca di ‘reperti’ e tonalità nuove), a mani levate e passo sicuro (sia pure su virtuali tacchi a spillo. Quelli di Galatea erano reali: solo il pietrisco della spiaggia era riuscito a convertirli in più opportune infradito rasoterra, sia pure stilose).

mercoledì 18 febbraio 2009

Voulez vous coucher avec moi? Dal kitsch al coach (con un pizzico di ketch-up)


Letto a quattro piazze. Sono partito – nelle intenzioni – dal letto singolo (psicologia e affini), poi mi sono allargato al letto matrimoniale – passando per quello ‘alla francese’ (un po’ di sociologia e un po' di filosofia) – fino a rotolarmi nelle alcove da mille e una notte (teologia e, volo pindarico, architettura).
E non solo ho fatto il rolling stone, ma, nel mio rotolare e poi fermarmi sui vari blog, sono diventato sia una ‘pietra angolare’ (diciamo, un ‘sassolino’) sia una ‘pietra d’inciampo’.
Infatti, rotolando rotolando, ho potuto interloquire – ma anche interferire (o solo ‘ferire’, mai ‘infierire’) – con vari blogger: diciamo pure, un blogging à gogo.

“Ma tu guarda quanto siamo pindarici, noi blogger… – così esordisce Alessandra Colla nel suo blog, in cui mi tira (letteralmente) per il collo (ma io l’ho provocata) – Parto da un post disgustato e furente sul tristissimo caso Englaro fortunatamente conclusosi, e arrivo a quest’altro post in cui mi tocca, per la salvaguardia della mia pace interiore e della mia salute mentale, spiegare chi sono.”
Sì, parlando parlando (più che altro, ballando ballando), ho toccato le quisquiglie & pinzillacchere, ‘ma anche’ (ora lo posso dire, Veltroni non c’è più) il simbolo, gli archetipi, la metapolitica, larchitettura ruggente…
“‘Suona’ la parola la malvestita realtà… Parolibere ancheggianti, ossimori frenati o rutilanti, specchi autoriflettentesi, un po’ narcisi un po’ Eco.”
Diciamolo pure, questo blog è un salon della parola. Della parola creativa e creatrice. Diciamo pure, della parola crea-attiva.

Ma siccome, oltre alle parole ci vogliono i fatti, oggi, per dare un colpo al cerchio (l’architettura) e alla botte (la psicologia), parlerò prima, non dell’idea, ma della realtà, di ‘città’, poi, non dell’idea, ma della realtà, di ‘uomo’ .

THE JUNK CITY


“New York é una città brutta e sporca. Il suo clima é indecente. Le sue strategie politiche terrorizzerebbero qualsiasi bambino. Il suo traffico é una follia. La sua competitività é micidiale. Ma su una questione non vi sono dubbi: dopo essere vissuti a New York, dopo aver fatto della città la vostra casa, nessun altro luogo potrà più reggere il confronto.”
Città di cui fare esperienza. Con innocenza. Da avventura culturale. E anche trend-setter. E Lorenzo aveva tentato il grande salto. Un progetto ‘tosto’ il suo, tostato al punto giusto. Ma su cui non avrebbe puntato un cent. Rien ne va plus. E la pallina si era fermato sul numero giusto. Zero (a proposito, Lorenzo era un fan dei 50 Cent. Forte per un cinquantenne…).
“Le città sono stati d’animo, stati emotivi, umori.” Con o senza John Steinbeck e Saul Bellow. Città da abbandonare, ma per andare dove? “When you leave New York you ain’t going nowhere.” Eppure, “Living in New York is never easy” (e nemmeno leaving).
Vivi e lascia vivere. Da svegli, dormendo o in fase rem, New York è assolutamente da vivere, fosse anche “vedi New York e poi muori...” E Lorenzo, che pure mai come in quello scorcio esistenziale (uno squarcio di vita autentica) voleva vivere, si fece ‘prendere’ dal gorgo macro-metropolitano (e dal suo gergo). Dal vortice tritarifiuti, dalla fonderia di corpi e anime, dal laboratorio alchemico.

Reading from New York. Città biblica. Come la Bibbia: puoi rileggerla infinite volte e ogni volta scopri un senso nuovo. Settanta sensi. Città fucina, laboratorio di un futuro charming. E il presente? Il sole che sbanda sui muri di vetro, le pareti di mattoni che si fanno rubizze… New York, città di rubino, cristallo e porcellana (cinese). Paradiso, inferno, purgatorio… (il limbo era passato di moda). Chiasso generale tra i silenzi individuali. La musica? From the beginning, di Emerson, Lake e Palmer.
Così sentiva (come sintesi) il ‘suono’ della metropoli in quel particolare stato d’animo (alla Emerson: non il pop-singer, ma Ralph Waldo, sempre lui, il filosofo del ‘divenire’, quello per cui “le preghiere degli uomini sono una malattia della volontà e i credi una malattia dell’intelletto”). Sì, questo il suo preludio nuiorchese. Un po’ alba di Pugnochiuso un po’ notti al Cairo. Una malattia e una preghiera. Ma lui ora era in convalescenza. E una volta guarito, avrebbe vissuto d’altro: di architettura, forse di preghiera…

Era il Kairòs, il calvario era finito (dopo la salita, la discesa) e le lancette si erano fermate: a mezzogiorno. Prima l’est (Pugnochiuso: una porta, una delle tante, sull’Oriente), poi l’ovest (New York, un portone sull’Occidente). Un’oasi nel caos del tempo. Una sosta tra volontà e immaginazione. E dentro questa, un viaggio nella selva oscurata dagli skyscrapers, attraverso spazi, tempi, culture e identità differenti, ma incidenti, intersecatisi in un complesso network di rapporti ed effetti. E affetti.
“New York è dove tutti vengono a farsi perdonare” confessa in Shortbus il vecchio gay, già sindaco (alla frutta) della Grande Mela. Sì, Shortbus, il gay-movie un po’ a Le fate ignoranti (ma oltre misura…), porno qui porno là, ma d’autore (l’avrebbero portato l’anno seguente al Festival di Cannes; portata un po’ indigesta…), che ben descrive la metropoli metrosexual. Alla Beckham.
Posh. Qui, più che altrove, Lorenzo avvertiva la disseminazione della cultura, costantemente contrattata e in divenire. Eppure, era solo da un paio di giorni che camminava col naso in su. E senza puzza sotto le narici. La metropoli puzzava, la campagna odorava? Era tutto oro quel che luceva? La metropoli versus la città rurale. Due realtà sostanzialmente diverse secondo Georg Simmel, filosofo quanto mai attento alla realtà urbana (Lorenzo se n’era occupato ultimamente, in un breve saggio su un giornale locale. Discettando, una ciliegia tira l’altra, anche di Kevin Lynch, Kurt Lewin e, dulcis in fundo, della percezione-Gestalt dell’immagine urbana).
Due realtà fisiche e due gestalt – forme, strutture – che incidono diversamente sul modus viventi dei loro abitanti. E sull’immaginario urbano.
Imago mundi.
L’architettura che ‘co-stringe’ fisicamente, psichicamente, ‘pneumaticamente’ i suoi sudditi. Architettura da de-costruire, reset psico-territoriale, bouleversement creativo.

Punto di partenza, tra riva e ‘deriva’: la metropoli. Ritmo veloce, giungla di stimoli, sensazioni e immagini. Versus: l’ambiente rurale, dal ritmo lento, più abitudinario e uniforme.
“Più la folla è densa, più ci sentiamo soli”,
così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del troppo’ (altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi stavano tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale, dell’indistinto. Dell’outlet, del ‘passaggio veloce’, del nulla – anche se iper… (e quella di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra esistenza in ‘non-luoghi’, dove si consuma il presente e si abortisce l’avvenire).

La metropoli del denaro e di Mammona versus la campagna del baratto (e della mamma, quella con le tette gonfie di latte). Ma anche lo sfilacciamento del tessuto comunitario – altro che manna – a vantaggio della scolorita ‘stoffa’ periurbana (le periferie anonime e suicido-file, ipermercati inclusi, per quanto architettonicamente ben disegnati).
Luoghi, non-luoghi? Vita, non-vita? Il bello non ha prezzo.

Vita tra i confini. Identità versus alterità. Ma ancor di più: alterità nell’identità. Equilibrio in bilico. Città plurale, campagna singolare. Spaesamento. Urbanizzazione selvaggia. Portici, shopping malls, clochardization. Marginalità inclusiva, gentrification elitaria. Minimal o segno ipergrafico. Fast-food versus slow-food. Boutique versus ipermercato? Un po’ l’uno un po’ l’altro. Ma con juicio.
Adelante. Ingoiare, piluccare. Vivere, sopravvivere. Morire, sognare, svegliarsi, risvegliarsi. Fare del silenzio un’opportunità, un ‘possibile appuntamento’ per ricevere intuizioni dal superconscio. Il silenzio della natura che (tra cinguettii e fruscii) annacqua l’ebbrezza urbana. Vivere tra i margini (e, spesso, sconfinare…).
Questo l’universo quotidiano. Ma anche l’intellettualità sofisticata, la riservatezza fino alla ritrosia, il formalismo blasé e il distacco anodino, il tempo che tutto scandisce e cronometra: questa la metropoli e i suoi ‘numeri’. Ma dietro il numero c’è Dio…"


Il ‘tralcio’ (un bel mazzo, a dire il vero) è tratto dal mio libro inedito (per non molto) Gocce di Pioggia a Jericoacoara, ma, in un momento in cui, anche sui siti-blog d’architettura miei ‘preferiti’, si parla di ‘crisi dell’archistar’ e ‘junk space’ (spazio ‘spazzatura’), non ho potuto fare a meno di ‘coglierlo’.
In ogni caso, al di là della parola ‘ludica’ e mai ‘pudica’, il ‘brano’ fa riflettere e pone alcune domande (e come si sa, le buone domande valgono più delle risposte... ma, voi, capovolgete l’assioma: rispondete…).

Leggete, riflettete e poi rispondete (anche solo dentro di voi):

• “New York é una città brutta e sporca. Il suo clima é indecente. Le sue strategie politiche terrorizzerebbero qualsiasi bambino. Il suo traffico é una follia. La sua competitività é micidiale.
Ma su una questione non vi sono dubbi: dopo essere vissuti a New York, dopo aver fatto della città la vostra casa, nessun altro luogo potrà più reggere il confronto…”
Riflessione (dubitativa):
Le città moderne saranno degli ‘junk spaces’, saranno senz’anima, ma vi ‘prendono l’anima’

Le città sono stati d’animo, stati emotivi, umori.

“Reading from New York. Città biblica. Come la Bibbia: puoi rileggerla infinite volte e ogni volta scopri un senso nuovo. Settanta sensi. Città fucina, laboratorio di un futuro charming. E il presente? Il sole che sbanda sui muri di vetro, le pareti di mattoni che si fanno rubizze… New York, città di rubino, cristallo e porcellana (cinese). Paradiso, inferno, purgatorio…”
Riflessione (ancora dubitativa):
Le città moderne sono il laboratorio del futuro e la fucina (e cucina) del presente. Sta agli architetti e ai ‘politici’ far sì che dal ‘purgatorio’ si passi al ‘paradiso’, e non si cada, invece, nell’'inferno'.
Cultura, ‘Tradizione’ e ‘Anelito del Futuro’ sono la
‘grande triade’ (Cielo, Terra, Uomo) di questo ‘Pro-getto’.


“Vita tra i confini. Identità versus alterità. Ma ancor di più: alterità nell’identità. Equilibrio in bilico. Città plurale, campagna singolare. Spaesamento. Urbanizzazione selvaggia. Portici, shopping malls, clochardization. Marginalità inclusiva, gentrification elitaria. Minimal o segno ipergrafico. Fast-food versus slow-food…”
Riflessioni: tante…

Ora basta, ho sforato… La prossima volta (ad horas) vi parlerò di junk soul (a buon intenditore la traduzione).

mercoledì 11 febbraio 2009

una diana per Eluana

“Non tutti quelli che muoiono nascono anche…”

E neppure tutti quelli che nascono muoiono! Sì, in questi giorni, per parafrasare il titolo dell’opera di Nietzsche da cui ho tratto l’aforisma, molte sono state le ‘ombre’, pochi i ‘viandanti’ (naturalmente, sto parlando del caso ‘Eluana Englaro’).

Sì, molto ‘animo’, molta ‘animazione’, ma poca ‘anima’.

In ogni caso, meglio che niente, in questa ‘civilization’ dis-animata. Ma non voglio generalizzare, né fare il vittimista. Anzi, sono un inguaribile ottimista (ma non di quelli da ‘happy end’).

E poi sono tutt’altro che un ‘moralista’ o un ‘castigatore di costumi’. Dio me ne guardi!

Sì, è innegabile, ci sono stati anche molti sprazzi di ‘kultur’, bagliori di civiltà. Sia dall’una sia dall’altra parte.


Una diana per Eluana: così ho ‘titolato’ questo post. La diana, la sveglia... (ma ‘diana’ etimologicamente, è anche ‘dì’, luce, sole, ma anche luna…). Ed Eluana? Idem (el è radice ‘divina’ e mi aggrappo a una liana... lei era 'solare'). Quindi, per Eluana, notte (la luna), ma anche giorno…


Ho detto della querelle. Luci e ombre…

E la mia posizione? Sul filo del rasoio, il rasoio di Ockham. “A parità di fattori la spiegazione più semplice tende ad essere quella esatta”. Ed è qui il problema: qual è la spiegazione più semplice? Da un lato: “sarebbe stata quella di far continuare a vivere Eluana: in questo modo, nessun grave problema morale, nessuna grossa discussione (se non fosse stata per la caparbietà di papà Beppino, pochi avrebbero sollevato il problema), nessun protocollo o ‘codice deontologico’….”

D’altro canto: c’è pure una dignità dell’essere umano… è vita quella che, sia pur con un minimo di funzioni vitali, è ridotta al lumicino e sembra solo un voler prolungare ciò cui la natura (o Dio) vorrebbe porre fine?”

I primi ‘grilli’ (o ‘cicale’) sarebbero gli ‘spirituali’, i secondi (sempre grilli e cicale, qualche ‘gatto’, qualche ‘volpe’, qualche ‘sciacallo’ – ma non mancano in nessuno dei due ‘schieramenti’) sarebbero i ‘materialisti’ (naturalmente, entrambi con tutte le sfumature possibili: dai ‘radicali’ ai ‘possibilisti’).


Una krisis che ha tagliato trasversalmente (almeno in alcuni settori) schieramenti politici, ideologici e religiosi. Ecco – tanto per sfatare certe immagini di destra ‘codina’– un esempio di ‘destra’ non-conforme (la sinistra, si sa, salvo i teo-con, era più propensa alla soluzione ‘stacca-spina’).

Alessandra Colla, nel suo blog, esprime quest’opinione ‘radicale’ (ho colto solo un ‘tralcio’), ‘forte', da molti non condivisibile, ma portatrice di un suo ‘senso’:

“Chi è più materialista? Chi crede che la Vita sia consapevolezza, speranza, progetto, emozione — tutte cose che non appartengono più al povero grumo di cellule straziate che è ormai Eluana Englaro —, o chi crede che basti un mero insieme di funzioni fisico-chimiche a definire una “persona”? Chi riconosce all’individuo il valore immenso della dignità personale e del pudore di fronte alle miserie corporali; o chi denuda, fruga, invade un corpo come se fosse un lacerto di carne inidentificabile sul banco del macellaio?”

Io sono un po' più sfumato: so che i nietzscheani puri abbraccerebbero tout court la tesi del blog de droite, ma io che, colgo molto dal pensiero di Gesù, so pure che il ‘miracolo’ è possibile e che non bisogna lasciare mai nulla d’intentato.

Certo, Gesù in casi come questi – ma anche meno gravi (o addirittura – vedi Lazzaro – impossibili) – interveniva per guarire, ma su richiesta dei congiunti (anche del centurione), della madre, del padre… E poi, il ‘rinato’, era ‘rigenerato in tutti i sensi: tornava, per quanto possibile, a una vita piena.

In questo caso, sinceramente, sono perplesso…


Sì, è vero, è spesso difficile definire il limite che separa ‘assistenza’ da ‘accanimento terapeutico’ (è forse qui, prosaicamente, il vero problema – un po’ come il voler stabilire il momento in cui il ‘grumo di cellule’ – l'embrione – diventa ‘persona’), ed è certo questo il caso di Eluana (tralascio qui la questione ancor più ‘spinosa’ dell’eutanasia attiva), ma c’è anche un problema di vita degna di essere vissuta e di dignità del morire.

E citando proprio dalla Dignità del morire del famoso teologo ‘dissidente’ Hans Küng, non posso che unire il mio 'filo' al 'colorato' intreccio 'kung-nicciano':

“Non si può negare che l’essenza dell’uomo è il desiderio: l’uomo è un essere finito capace di un desiderio infinito, imperfetto, incompiuto mai sazio, che ricerca sempre, interminabilmente, all’infinito; trova e tuttavia torna a ricercare, conosce e tuttavia torna a dubitare, prova piacere e tuttavia resta insoddisfatto. «Ed ogni piacere vuole eternità, vuole profonda, profonda eternità! (Nietzsche)»

Sì, Eluana ha vissuto la sua fugace giovinezza con ‘desiderio’, un desiderio ‘infinito’ (come è tipico di quell’età) speso nelle cose ‘finite’ (ma che ne sappiamo noi della sua, eventuale, sottile brama di eternità, di ‘infinitezza’?).

L’aver lasciato che la natura (o Dio? Lui c’è sempre ‘dietro’, o in ogni luogo – anche quando si 'traveste' da Caso) facesse, non più ‘frenata’, il suo corso, forse, ha dato a Eluana – al suo ‘spirito’ (quello sì che è sempre vivo, ‘dinamico’, vivace!) – il piacere ‘sfrenato’ dell’eternità, della profonda eternità…

La diana è suonata, Eluana: ora sei sveglia!



mercoledì 4 febbraio 2009

Dall'Arké alla Techné (passando per Kakà): il ruolo dell'Etica


L’ETICA COME ‘SEGNO DEI TEMPI’ E ‘SOGNO DEL FUTURO’

Il campo (seminato/minato o arido?) dell’etica è un territorio privilegiato – pathfinder per esplorare quali saranno le prospettive di questo Terzo Millennio ancora in fase aurorale. È il terreno di gioco (o di lotta) in cui si affrontano il retaggio del passato, la realtà del presente e le sfide del futuro.
Al primato della politica, mattatrice nelle discussioni post-sessantottine, si è, infatti, man mano andata sostituendo la riflessione sulle questioni etiche. E il dibattito si è ancor più acceso nel turning point degli anni 70/80, che ha segnato il passaggio dalla modernità alla post-modernità.
Un cambio di paradigma: dalla verità (antropocentrica) dell’homo modernus (che sostituiva la verità teocentrica dell’homo antiquus) alle molte verità dell’homo post-modernus. Da Cartesio, Kant, e la ‘ragione illuminata’, svoltando per Nietzsche e lo ‘smascheramento dei valori’, per poi arrivare, con qualche affanno, al ‘decostruzionismo’ di Derrida, alla ‘condizione postmoderna’ di Lyotard e, infine, alla ‘società liquida’ di Bauman: così l’etica è arrivata sino ai nostri giorni, tra storicità, mobilità e relatività.
Perché, dunque, questa voglia di etica ora, nell’avanzante Next Age, ‘periodo di prova’ in cui si riassemblano i pezzi del ‘domino’ dell’ormai ‘rotta’ New Age e, con la lampada di Dio(gene), si va alla ricerca dell’Uomo Nuovo, di una Società Nuova, zigzagando tra Globalizzazione e Localismo, tra le onde del Web e le verdi valli della Tradizione e del senso di Comunità?

Perché senza Etica non c’è Identità…

L’etica, infatti, connota la volontà di distinzione propria dell’uomo, evita che, malgré tout, ci sia la ‘Ribellione delle masse’ (Ortega y Gasset) o l’Uomo senza qualità’ (Musil). Al di là del valore ontologico e della Stimmung – atmosfera – da salotto radical-chic (o da pour parler da supermarket), ben oltre l’essere una delle espressioni dello Zeit-Geist – lo Spirito del Tempo –, con il suo piangersi addosso per la ‘perdita dei valori’, l’etica assume connotazioni eminentemente pratiche (ontiche): fa sì che una città sia una città – e non una somma di ‘pieni’ o un ‘vuoto a perdere’ (per non dire un garbage can) – e che un’impresa non sia un’impresa…
I can, I care… L’etica tocca le corde dell’individuo nei suoi rapporti con l’altro (e l’Altro) – siamo nei territori della psicologia, della filosofia e della teologia – e la sua empatia con gli altri e col territorio in generale (temi della sociologia e dell’urbanistica): insomma, dal cucchiaio alla città. Sì, l’etica riveste un ruolo fondamentale anche nella gestione urbana, se improntata ai principi di sostenibilità e sussidiarietà. La rigenerazione urbana, il community-based planning, l’advocacy planning, tutta l’urbanistica con finalità sociali, in sintesi, parte da premesse etiche. Ma l’etica tocca e investe anche le istituzioni, l’economia, le aziende. Entriamo in queste ultime ‘finestre’ e soffermiamoci all’interno di questi ambiti, dopo aver ‘messo i piedi per terra’. Consideriamo, anzitutto, l’identità di un’azienda, la sua corporate identity: notiamo come il ‘fattore etico’ (senza trascurare quello ‘estetico’…) sia una garanzia di successo e di approvazione da parte della comunità o del ‘villaggio globale’.
L’etica, ossia la somma dei comportamenti ritenuti conformi alla moralità o al senso del ‘bene’, non solo è un tema ‘sensibile’ per la cultura d’impresa e l’identità dell’azienda, ma è il minimo irrinunciabile per instaurare un rapporto di fiducia tra un’impresa (lo stesso ente pubblico) e i vari detentori della posta in gioco (gli stakeholder: le aziende, pubbliche o private, i partner con cui interagiscono, nonché le varie controparti – cittadini, clienti, fornitori, opinione pubblica, ambiente).
E poi, le ricadute sull’immagine e sul versante del ‘politico’, per chi assume comportamenti ‘etici’, sono facili da immaginare (e senza per questo necessariamente cadere nel qualunquismo e nel facile buonismo della ‘moralina’, così invisa – giustamente – a Nietzsche). Specie poi oggi, in cui c’è un potenziale di ‘consumatori’ e di organizzazioni sempre più sensibile e ‘critico’ nei confronti delle problematiche inerenti allo sfruttamento dei lavoratori, ai privilegi iniqui, alla finanza rapace – e alle tematiche ecologiche e le altre istanze etiche in generale. L’approccio ‘etico’ nei rapporti tra stakeholder ripropone i temi ‘vincenti’ dell’agire comunicativo’ e dell’‘organizzazione comunicativa’ di Habermas, ossia la dialettica tra ‘sistema’ (gli apparati amministrativi e direttivi) e ‘mondi vitali’ (i valori ‘base’ della comunità). Solo un agire etico e razionale, teleologico e strategico, porta all’empatia tra le parti e alla reciproca soddisfazione ('efficacia' organizzativa e sistemica).
Potere comunicativo che si riallaccia al finalismo operativo strategico di radice weberiana e al potere non verticistico, ma orizzontale, di Hannah Arendt, esercitato da cittadini di pari dignità e circolante tramite la comunicazione.
D’altronde, la glocalizzazione (cocktail a dosi variabili tra mire globalizzanti e derive localistiche, ma anche il senso di ‘comunità’) e il sempre crescente mix tra etnie e culture diverse impongono, anche nell’ambito della cultura d’impresa, un orientamento verso scopi e valori condivisi e l’implementazione di una cultura della fiducia, della plausibilità e della reciproca attendibilità: in una parola, un comportamento etico al passo coi tempi.
Segno dei tempi, c’è sempre più urgenza di una corporate ethics etica dell’azienda – che combatta il pressappochismo, la criminalità economica, le speculazioni finanziarie, i fattori devianti in generale, e riaffermi, o costruisca ex novo, rapporti sani, stili etici e franchi di comunicazione, clima interno rassicurante e motivante, tutela della dignità personale, miglioramento della qualità della vita e del benessere personale, difesa dell’ambiente, lotta all’esclusione sociale, pari opportunità, trasparenza…
Non solo, ma l’etica è indispensabile, affinché, al di là di qualche successo effimero (e delle comunque inevitabili ricadute deleterie, su almeno uno degli stakeholder), le società, le imprese, gli enti e i loro sotto-sistemi funzionino senza intoppi e in maniera efficace ed efficiente. L’etica aziendale, e degli affari in generale, legittima così i comportamenti e gli approcci strategici e guida le decisioni individuali, traducendo la teoria (i valori di base) in prassi (le azioni conseguenti), introducendo così un nuovo modello di governance che punti a soddisfare tutti gli stakeholder interessati: pertanto, d’ora in poi (è auspicabile), non solo bilancio contabile ma anche bilancio sociale (in cui ha il suo peso anche la legalità). Le imprese sono sistemi in grado di ‘agire’, quindi responsabili moralmente, sia all’interno (inter-agiscono con il comportamento etico dei loro membri) sia all’esterno, avendo obblighi morali nei confronti degli altri ‘portatori di interesse’, attivi o passivi (stakeholder).
Ma il pluralismo non è una scelta sufficiente. Se la parola ‘pluralità’ ha connotazioni positive, denotando la compresenza di tante posizioni, come pure positivo è il termine ‘tolleranza’, in quanto referente di convivenza civile, entrambi però ‘vacillano’ quando si voglia pervenire a un concetto di etica che non sia ‘debole’. In questo caso la propensione è per un semplice affastellamento di posizioni diverse. In pratica: un “compromesso”. Nondimeno, una decisione dev’essere presa, e questa non può mai essere di natura pluralista. Un percorso lo si deve seguire, anche quando appare un sentiero scabro, un tracciato politicamente scorretto. Non si potranno seguire, in maniera indifferenziata, dei ‘percorsi’. C’è necessità, e voglia, di una vox clamans in deserto…
Se ambiguità e frammentarietà sono state l’approdo in campo morale nel passaggio dal moderno al postmoderno, occorre perciò recuperare il principio secondo cui, all’interno di un’opzione di scelte (profitto, economicità, bontà del prodotto, raggiungimento del target, immagine, utilità immediata, ecc.), c’è sempre una radice morale che l’orienta e ne determina il contenuto.
Nessuna posizione o decisione è neutrale per quanto attiene ai valori etici: “Il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal maligno” (Matteo 5,37 – passo ripreso da Paolo Flores D’Arcais nel suo famoso tête-à-tête del 21 settembre 2000 – a Roma, al teatro Quirino – con l’allora cardinale Ratzinger). Le scelte etiche, pur partendo da presupposti assoluti (ossia ‘sciolti’ dalla contingenza), sono altresì ‘in situazione’, ossia devono tener conto del Sitz im Leben, del contesto vitale (oltre che, ovviamente, della Weltanschauungvisione del mondo – sottesa. E ça va sans dire, dello Zeit-Geist). Sembra un ossimoro, ma non è così: il valore etico è forte, ma non rigido, si piega ma non si spezza. Infatti, l’approccio epistemologico prospettico presume l’interazione dialogica e, pertanto, i valori morali informativi dell’etica devono essere coniugati in relazione sia al soggetto sia al contesto sociale e culturale all’interno del quale ci si muove.
Un’impresa, per tornare alle dinamiche aziendali, pur tenendo conto dei diversi ambiti con cui si confronta deve agire con responsabilità sociale, secondo un codice deontologico partecipato e condiviso, rigoroso ma non rigido, autorevole (exousia) ma non autoritario (dynamis) – in definitiva: carismatico (nel senso di Max Weber).
Mancano le regole, c’è assenza di vincoli? No, tutt’altro, ce ne sono pure troppi! Un intreccio talora complesso e inestricabile di criteri di valutazione, reso ancor più problematico dalla frammentazione dei ruoli. L’articolazione dei principi di valutazione si è diramata in direzioni sempre più divergenti l’una dall’altra: dalla ‘giusta maniera’ di agire si è passati al tecnicamente efficace’, all’‘esteticamente gradevole’, al ‘professionalmente (per non dire, politicamente) corretto’. C’è, insomma, un distacco’ fra razionalità strumentale – competente sui mezzi – e razionalità pratica, competente sui fini. Da un lato, un incremento delle possibilità di scelta, dall’altra l’indebolimento della capacità d'opzione. Occorre, quindi, riprogettare un impegno etico che abbia un fondamento e una validità assoluta, globale, che passi attraverso una ri-fondazione dell’etica della responsabilità, come strumento di autoconoscenza. Una Weltanschauung, uno sguardo sul mondo, che riagganci e riallinei il proprio agire, anche come impresa, a dei ‘buoni motivi’ e a delle opzioni eticamente giustificate: la politica dell’impresa come commitment (impegno) aziendale. Non solo ‘corpo’, non solo ‘anima’, ma anche – e soprattutto – ‘spirito’.
L’etica deve diventare parte integrante dell’identità e della filosofia di un’azienda, di qualunque azienda. Solidarietà, giusta rendicontazione, cultura della non violenza e del rispetto per tutta le modalità dell’esistenza, giusto orientamento economico, tolleranza, pariteticità: segno dei tempi, non solo un sogno del futuro…
E non è nel libro dei sogni: sin già da ora un’impresa ‘ethically oriented’ può in questo modo emergere e non essere più un’impresa ‘qualunque’ e nemmeno da ‘capitalismo da casinò’ (con tutti i rischi, non solo etici), potendo ritagliarsi una sua nicchia vincente nel mare magnum delle imprese ‘qualunque’. Può, infatti, fare più affari, perché i clienti si fidano, sapendo che tutto è chiaro e trasparente. La gestione etica risulta appagante e pagante, migliora l’immagine aziendale e la produttività, comporta anche meno costi in nero.
Per dirla col teologo Hans Küng, lider maximo di etica e dintorni: …lo scopo finale dell’impresa andrebbe individuato nell’orizzonte di tutta la società e comprende il benessere dell’economia, dello stato e della società, i quali si attendono che l’impresa globale contribuisca in molteplici modi (ad esempio, mediante la creazione di posti di lavoro, il pagamento delle tasse e la promozione della cultura) a promuovere il bene comune. (…) Consapevolezza del fine da raggiungere, senso di orientamento, criteri etici e bussola interiore: tutti questi sono elementi strutturali dell’etica, non dell’etica come dottrina, bensì dell’etica quale atteggiamento morale interiore.